Riportare in vita la terra: i terreni tolti alla mafia diventano spazio di legame sociale e di cittadinanza attiva
Lorenzo Capalbo, Guido Turus, Mo.V.I. Veneto
«Non c’è impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a trarre profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sétte che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete […] Il popolo è venuto a convenzione coi rei. […] Molti alti magistrati coprono queste fratellanze di una protezione impenetrabile».
Sono parole di don Pietro Ulloa, procuratore generale di Trapani che, nel 1838, fotografa i costumi trapanesi del suo tempo.
La reazione dello Stato al fenomeno si fa, però, attendere. Dobbiamo, infatti, aspettare oltre un secolo perché all’interno del Codice penale italiano venga introdotta la fattispecie di reato dell’associazione per delinquere di tipo mafioso. È il 1982, la legge è la numero 646 e porta i nomi dei suoi promotori: Rognoni e La Torre. I promotori sono volutamente “bipartisan”, sono la rappresentazione della necessità di dare un netto segnale di trasversalità rispetto all’impegno antimafia dell’intero arco delle forze parlamentari.
«Il disegno di legge di Pio la Torre è la presa d’atto della realtà della mafia. La mafia non è soltanto una questione criminale fine a sé stessa, ma è un fenomeno economico e sociale che si concretizza nel riciclaggio di denaro. In Italia la mafia è presente ormai nelle maggiori città italiane, dove ha fatto grossi investimenti edilizi, industriali e commerciali. […] A me interessa conoscere questa accumulazione primitiva del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio di denaro sporco […]. E mi interessa ancora di piú la rete mafiosa di controllo che grazie a queste case, a quelle imprese e a quei commerci, magari passate a mani insospettabili, protette, assicurano rifugi, procurano reti di riciclaggio e controllo di potere. Gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi, caramente pagati dai cittadini, non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati».
Con queste parole il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso dieci giorni prima dell’approvazione in Parlamento della legge Rognoni/LaTorre, commenta quella che sarà la prima grande assunzione di responsabilità da parte dello Stato Italiano nei confronti del fenomeno mafioso.
La norma rappresenta un punto di svolta, da un lato, nella riconoscibilità del fenomeno mafioso come organico e strutturato e, dall’altro, nel contrasto e nell’intaccamento delle ricchezze materiali frutto delle attività illecite. Per la prima volta, infatti, viene previsto il sequestro e la confisca dei beni legati alle attività mafiose.
Confisca dei beni … a fini sociali
La confisca dei beni venne salutata come una azione dalle incredibili potenzialità. A difesa di questa pratica sin da subito si è mossa l’associazione “Libera – associazioni nomi e numeri contro le mafie” che ha condotto, su questo tema, una campagna di sensibilizzazione e mobilitazione.
Nasce cosí l’idea che questi beni potessero diventare anche l’occasione per dare avvio a un’azione costruttiva da parte della società civile, azione tesa all’indebolimento e alla perdita di consenso delle organizzazioni criminali. Il metodo per perseguire questo obiettivo venne individuato attraverso la destinazione a fini sociali dei beni sottratti ai mafiosi.
La legge di iniziativa popolare, la legge 109 del 1996, venne presentata con oltre un milione di firme di cittadine e cittadini a sua vidimazione. La legge, approvata il 7 marzo di quell’anno, oltre a sancire il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle organizzazioni mafiose, si preoccupò di suddividere i beni fra diverse tipologie e prevederne i rispettivi riutilizzi.
L’intuizione che sta alla base dell’assegnazione a fini sociali dei beni confiscati è profondamente innovativa. Bisogna, infatti, guardare al momento storico nel quale viene formulata la Legge 109/96. Il contesto è caratterizzato da un incredibile movimento civico nato come reazione alle grandi stragi di mafia dei primi anni del Novanta. Filo conduttore di tutte le azioni intraprese in appoggio ai movimenti spontanei nati in Sicilia e poi sviluppatisi in tutto il Paese era la convinzione che fosse giunto il momento di contrastare in modo concreto, frontale e diretto il potere delle organizzazioni mafiose nel Paese.
Risulta dunque evidente come la 109/96 rifletta un approccio fortemente innovativo: i beni confiscati diventano un’occasione di sviluppo economico e sociale. L’intento di questa legge va oltre la legge Rognoni/La Torre, va oltre la necessità di mettere freno agli effetti invasivi delle ricchezze di origine criminale puntando in maniera diretta e dichiarata a eliminare l’immagine di prestigio e supremazia di cui i mafiosi godono nei territori. Una nuova epoca della lotta alla criminalità organizzata.
La componente simbolica dei beni confiscati è forse la caratteristica piú importante della norma. L’utilizzo di questi beni, da parte di attori del territorio che operano nel sociale, crea dei simboli tangibili, per chi vive nel territorio stesso, e dimostra che il potere mafioso non è intoccabile e che lo Stato può combatterlo, riappropriandosi del controllo e garantendo al cittadino una migliore qualità della vita.
La lotta alle mafie con questa legge di iniziativa popolare propone un cambio di passo e inaugura una stagione nuova di impegno che chiama in causa i cittadini stessi. La legislazione anti-mafia è in tal senso una legislazione civile perché coinvolge l’intera popolazione attraverso l’uso dei beni che sono stati sequestrati e confiscati, siano essi beni immobili o denaro frutto di riciclaggio. In tal senso questi beni possono essere la chiara dimostrazione che un lavoro regolare, che attività di promozione e risanamento di zone degradate, che la gestione di aziende non compromesse da denaro sporco o circoli finanziari e commerciali intaccati da attività illegali è possibile.
La mafia disintegra il tessuto sociale
Tutto ciò non si capirebbe se non affrontando il senso e il significato complessivo del fenomeno mafioso nel nostro Paese. Le pratiche mafiose non sono delle attività solo o semplicemente criminali, sono le azioni di organizzazioni che hanno come obiettivo l’arricchimento privato e il controllo politico, culturale e sociale di un territorio. L’arricchimento avviene attraverso azioni criminali e speculazioni sui beni comuni, il controllo attraverso l’intimidazione, da un lato, e la fidelizzazione, dall’altro, degli abitanti di un contesto sociale.
Parlare di mafie non significa parlare di un fenomeno criminale tra gli altri, ma significa discutere di un sistema economico basato sul controllo di un territorio sul quale viene esercitato un potere esterno allo Stato, un potere che specula sui beni, che dovrebbero essere della comunità, per arricchirsi.
L’arricchimento comporta che sulla base delle simpatie, dei favori, dei rapporti di forza e di scambio in uno spazio fisico del territorio s’istauri un ordine basato non piú sulla cittadinanza, ossia sulla condivisione di diritti e di doveri e sull’uguaglianza bensí un sistema che ripartisce ricchezza sulla base, e nella misura, in cui questo gesto consente di implementare il controllo.
Lo spazio mafioso è quello in cui ai cittadini si sono sostituiti i sudditi. Ai sudditi il sistema dà lavoro, formalmente legale o illegale che sia, permette un guadagno, anzi in una certa misura lo aiuta, per poterne avere un ritorno in termini di fedeltà.
Le mafie sono dei soggetti che appropriandosi di ciò che rende possibile una comunità gliene restituiscono le briciole, attuando un sistema di welfare che nulla ha a che vedere con i diritti.
Per questo quando parliamo di beni confiscati alle mafie dobbiamo ricordare e precisare che parliamo sí di ville di lusso, di piscine e campi da golf, ma anche, e soprattutto, di attività imprenditoriali (che sfruttano il lavoro e il territorio) che producono una ricchezza, i cui avanzi saranno catene dei sottoposti e macigni sulle future generazioni.
La questione che abbiamo di fronte è allora uno scenario assai complesso in cui tenere conto di molteplici variabili, un paesaggio (quello della giustizia sociale e della cittadinanza) che per essere riportato in vita necessita di molteplici azioni, volte e votate alla realizzazione del principio di legalità costituzionale.
Restituire il mal tolto
Non è sufficiente confiscare i beni alle mafie, anche se rappresenta un primo e fondamentale passo per avviare un percorso di contrasto, non basta neppure prevedere generiche attività sociali su quei beni, bisogna riuscire a “restituire il mal tolto” come recita uno slogan di Libera, ridonando alla comunità quanto le è stato sottratto.
Restituire alla comunità quanto alcuni hanno rubato a tutti è un imperativo che deve essere accompagnato da azione di tutela per le attività economiche avviate: salvaguardare i posti di lavoro è un obiettivo fondamentale per qualsiasi attività antimafia.
Non possiamo permetterci il lusso di confiscare un’azienda a un malavitoso senza impegnare forze e competenze nel tenere in vita quella attività, non possiamo confiscare delle proprietà e causare, come prima ricaduta, quella del fallimento di un’impresa con successiva perdita di posti di lavoro. La fatica di tenere legato il riutilizzo sociale dei beni confiscati a quello del loro significato economico per un territorio è un compito che la Repubblica deve assumersi.
In questo quadro tutte le attività produttive di un territorio, tutte quelle che riescono a creare posti di lavoro (basati sull’attuazione delle norme dello Stato sul rispetto per gli accordi sindacali) vanno curate e salvaguardate, riportandole in una comunità repubblicana fondata sui diritti di cittadinanza. Salvaguardare il lavoro, crearlo e tutelarlo è un’azione antimafia.
Le mafie ci portano ad affrontare sfide complesse che ci impongono una reazione su tutti i piani della vita del Paese, non possiamo affrontare queste situazioni senza parlare di welfare (autentico), lavoro, diritto di cittadinanza, giustizia sociale: questo significa lavorare per la legalità.
Le imprese confiscate sono luoghi in cui si produceva ingiustizia sociale: la loro chiusura non è sufficiente, bisogna fare diventare luogo simbolo di una nuova produzione basata sul rispetto e sulla condivisione.
Se questo è vero nei confronti delle aziende in mano ai poteri lobbistici mafiosi lo è, se possiamo permetterci, ancora di piú, in un caso specifico: quello delle aziende agricole.
Questa affermazione necessita di una spiegazione, di un inquadramento nel senso e nel significato che vogliamo dare alla questione terra nello specifico di questo intervento.
La terra è bene comune
Innanzi tutto consideriamo la terra un bene comune.
«La terra insegna la costanza, perché richiede cure quotidiane. La scrupolosità, perché non sopporta il lavoro sciatto e superficiale. La fiducia, perché non sempre il raccolto corrisponde alle aspettative. La collaborazione, perché richiede molte mani e molte braccia. E soprattutto insegna l’umiltà (parola che deriva appunto da humus, terra) e la condivisione, perché è bene comune per eccellenza, quindi è giusto, oltre che conveniente, che i suoi frutti vadano in misura sufficienti a tutti».
Se molti di noi sono convinti che la terra rientri nei beni comuni oltre alla citazione di don Luigi Ciotti dovremmo però anche specificarne le motivazioni, motivazioni che ci permetteranno di portare avanti il discorso che vogliamo fare.
Bene comune è un’espressione, anche per colpa di un pezzo di Terzo settore, spesso abusata, utilizzata ripetutamente fino a sfilacciarne il senso e il significato che qui, invece, vorremmo ripetere.
I beni comuni sono quei beni che non possono essere rinchiusi né nella proprietà privata né in quella pubblica, ma questo non significa che occupino lo spazio non coperto da queste due categorie, tanto meno che il pubblico o il privato possano considerare i beni comuni uno spazio di conquista.
Questa suddivisione deriva della legge romana che prevedeva, appunto, che gli oggetti e le cose potessero appartenere a una di queste tre classi: quella privata (dove il governo delle cose spetta al privato possessore), quella pubblica (i cui oggetti sono sottoposti alle decisioni dell’istituzione che controlla il potere) e quella comune. Le proprietà comuni non sono i beni pubblici ma se ne differenziano sulla base del fatto che neppure il detentore del potere politico (e indipendentemente dal metodo con cui tale potere sia stato guadagnato) possa deciderne liberamente che farne. Il potere politico, il pubblico, non ha tra le proprie prerogative quella di distruggere un bene comune.
Quindi i beni comuni non sono beni pubblici e se ne distinguono per il fatto di non poter essere dissipati dai governanti, non spettando tale diritto neppure ai singoli, ai cittadini, ai governati, tali beni non rientrano neppure nell’area dei beni privati.
Perché alcune “cose” vengono poste al di fuori della possibilità di essere governate, gestite e amministrate tanto da permetterne la distruzione?
Perché alcuni “oggetti” sono necessari e imprescindibili per la comunità. Alcuni beni (ad esempio i corsi d’acqua) non possono essere distrutti perché la loro distruzione comporta la distruzione della comunità stessa che vive in quel luogo, in quel territorio.
Allora i beni comuni sono un particolare alveo di beni il cui governo non è affidato neppure nelle mani del potere pubblico perché neppure il pubblico può avere il diritto di distruggere ciò che lo fonda e, in ultima analisi, lo permette. I beni comuni sono quei beni che permettono l’esistenza di una comunità in un dato luogo: esauriti i beni comuni si estingue la comunità che li viveva.
Questo comporta che:
1) i beni comuni non possono essere sottoposti alle logiche del mercato;
2) il permettere l’esistenza di una comunità è un’attività che non si realizza nel presente ma nel futuro.
Non è questo il luogo in cui discutere del primo dei due punti indicati come conseguenza, in questo momento dobbiamo soffermarci sul secondo: il futuro. L’àmbito proprio dei beni comuni è il futuro, è il permettere il futuro, sulla base delle scelte e delle decisioni che prendiamo oggi costruiremo un futuro in cui ci sia, o meno, comunità.
Riconquistare zolle di futuro
La terra è un bene comune perché senza i suoi frutti la comunità umana non può pensare di avere un domani. La terra è un bene comune perché non possiamo credere di spremerla per averne il massimo profitto concentrato nel qui e ora, distruggere la terra (la terra viva, la terra fertile) significa dilapidare il patrimonio che abbiamo a disposizione.
Distruggere la terra significa perdere quell’unico originale e vero apporto di energia esterno che abbiamo: l’energia solare, energia che, tramite la vegetazione che ricopre la terra viene catturata, resa commestibile, tramutata in energia per noi e per le altre specie viventi.
Per questo senza nulla togliere alle altre esperienze imprenditoriali sui beni confiscati alle mafie riteniamo che una attenzione particolare debba essere data e prestata alle esperienze agricole.
Tenere e riportare in vita un terreno deturpato da un uso votato solo al guadagno personale ha un significato che, oltre a rispondere a tutte le esigenze di antimafia e di uso sociale dei beni che vengono confiscati, significa anche (non solo simbolicamente) costruzione di legami sociali, ritessitura di rapporti di comunità: attività possibili solo per chi guardi al domani.
Le cooperative agricole che coltivano terreni confiscati alle mafie non hanno solo il compito di permettere la confisca, garantire il presidio di un territorio, dimostrare agli scettici che quegli spazi sono utilizzabili all’interno della giustizia sociale ma anche riconquistare zolle di futuro.
Senza cogliere questa specificità non potremmo capire lo slogan di una Cooperativa di Libera Terra che, in Calabria, gestisce terre confiscate:
«Coltiviamo la terra degna di uomini liberi, che con i suoi frutti di giustizia dà sapore di uno sviluppo sano ed equo».
Slogan in cui si intrecciano molteplici piani: quello del lavoro agricolo, della terra, quello della cittadinanza, del futuro che vogliamo costruire. Salute “fisica” e giustizia sociale, diritti di cittadinanza e agricoltura si ritrovano all’interno dello stesso orizzonte: un elemento dà senso all’altro.
Lavorare in un o per un terreno confiscato significa, cosí lo intendiamo, lavorare in senso pieno, vorremmo dire, costituzionale.
L’etica del lavoro rispetto al lavoro sui beni agricoli confiscati è l’etica costituzionale. Un lavoro che è impegno per la comunità, un lavoro che è un’idea di futuro, che non lo considera un dato di fatto.
Nell’incrociarsi delle tante questioni che riguardano i beni confiscati alle mafie e il bene comune terra vediamo un lavoro che non è solo, o semplicemente, guadagno, arricchimento, o realizzazione di un curriculum. Il lavoro sui beni di cui discutiamo è il lavoro su cui si basa e si fonda il Paese, un lavoro che mira alla salute della società, un lavoro che è impegno.
Con ciò non vogliamo dire che solo in questa attività si realizzi un’etica costituzionale del lavoro, ogni professione ha tra le sue opportunità quella di essere praticata nella direzione o nella creazione di comunità o di stimolo per l’individualismo, ogni professione può essere l’una o l’altra cosa, ma riteniamo che una certa e particolare attenzione vada data all’agricoltura, a quella che coltivando la terra ritesse legami sociali, rifonda spazi fisici d’Italia sui diritti di cittadinanza, quell’agricoltura che sfamandoci mette le basi affinché anche le future generazioni possano farlo.
Addendum: conoscere per cambiare
Fornire dati e valori certi sul numero e sull’estensione dei beni confiscati alle mafie nel nostro Paese è molto difficile.
Tra le criticità, che un pezzo di Terzo Settore denuncia da molti anni, c’è il mancato, pieno, funzionamento dell’archivio dell’ANBSC (Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata) per cui non sappiamo quanti siano i beni confiscati, di che tipo siano, se siano già affidati o in che modo siano utilizzati. I dati sono incompleti e non aggiornati.
Sicuramente è molto difficile gestire e tenere aggiornato un archivio di questo tipo, riuscire a interfacciarsi stabilmente con le amministrazioni comunali dove si trovano i beni confiscati, sapere in che stato di conservazione si trovano, come e quanto siano effettivamente capitali re-investibili nelle comunità locali.
L’eterogenea situazione in cui si trovano i beni rende molto difficile la creazione di un archivio aggiornato e funzionale, non toglie, però, che senza tale strumento tutto il lavoro che abbiamo descritto nell’articolo sia messo in difficoltà. Ridistribuire i beni che le criminalità organizzate hanno sottratto alla comunità rendendoli capaci di produrre lavoro e crescita sociale è un’azione che deve essere trasparente al massimo, chiara, regolata e regolamentata.
Non avere un quadro di insieme dei beni, della loro dislocazione, del loro stato rende tutti i passi che seguono piú difficili e rischiosi.
Fatta questa, importante, precisazione possiamo aggiungere delle informazioni quantitative al discorso che abbiamo fatto grazie all’azione e al lavoro di Confiscati bene (www.confiscatibene.it), questo gruppo di hackers ha reso pubblici i dati di cui abbiamo bisogno.
Nonostante questo grande e importante lavoro non è dato sapere le estensioni in termini di ettari dei beni agricoli confiscati, la loro disposizione, il loro livello di accessibilità e per quanto riguarda i terreni con fabbricato non sappiamo a quale tipo di fabbricato si faccia riferimento: una stalla, il ricovero per gli attrezzi, una cascina o una villa di campagna?
È quindi ancora troppo difficile riuscire a disegnare una mappa dei beni confiscati che ci permetta di leggerli per utilizzarli al meglio, di restituirli pienamente alle comunità.
Possiamo, per quanto riguarda i beni agricoli, (oltre a ringraziare i cittadini di Confiscati bene), fare una piccola valutazione: con la sola esclusione della Valle D’Aosta e del Molise risultano esserci terreni di natura agricola confiscati alle mafie in tutte le aree del nostro Paese.
Sono 2.594 gli appezzamenti agricoli (non sappiamo di che estensione) disposti su tutto il territorio nazionale. Tra quelli attivi, le produzioni sono varie e diverse, dipendono dalla zona e dal clima, ovviamente, ma anche dalle vocazioni agricole locali.
Possiamo dire che la produzione ormai ha coperto ampi settori alimentari muovendosi e offrendo prodotti come vino, olio, sott’olio, pasta, ma a fianco di questi prodotti piú diffusi e conosciuti, non possiamo non ricordare anche il miele, e il torrone, le farine, i ceci e il cuscus.
I beni confiscati sono dislocati su tutto il Paese, e come questi lo sono anche quelli agricoli: i prodotti sono tanti e diversi, dipendono da molte variabili, quella che ci compete direttamente è quella della scelta, della capacità di scelta, nel nostro fare la spesa.
Ormai i prodotti liberi dalle mafie sono facilmente presenti sugli scaffali delle botteghe “etiche” di tutto il Paese, ma lo sono anche all’interno della grande distribuzione.
Lorenzo Capalbo
Guido Turus
Mo.V.I. Veneto