Ambiente e Salute. Prevenzione e stili di vita
Ormai il mondo è diventato una “casa comune” e sentiamo il bisogno di puntare ad una vita buona per tutti, ad un benessere globale.
Questo benessere globale è possibile soltanto dentro un nuovo concetto di “sviluppo globale”, ma non lo sviluppo come quello che fino ad oggi abbiamo, perché i dati concreti ci dicono che esso non è più sostenibile.
Dobbiamo orientarci a un processo di cura e di umanizzazione che non degradi il pianeta e che mediante un intreccio armonico consegua il benessere per tutti e sia rispettoso tanto della natura quanto degli uomini e dei popoli.
Programma
9.30-13.00
interventi di introduzione al tema a cura di
• Curi Umberto, Professore emerito di Storia della filosofia, Università di Padova
Parole (e fatti) di cura nell’ottica di una nuova bioetica (mutazioni climatiche, ambiente urbano, fisico e sociale, inquinamento …)
• Russo Francesca, Regione Veneto Prevenzione Sicurezza alimentare Veterinaria
Prevenzione e stili di vita: prendersi cura di sé, dell’ambiente, della salute (i concetti di rischio/pericolo ambientale, sanitario…, prevenzione, principio di precauzione e responsabilità, etica intergenerazionale, … i non umani)
14.00-16.30
WorkApp Educazione alla salute e nuovi stili di vita
Molta parte delle nuove sfide bioetiche si gioca sul coinvolgimento dei cittadini e delle comunità, su una crescita di informazione, formazione e partecipazione. La competenza etica deve diventare parte integrante del bagaglio morale delle persone e delle comunità, assieme alla consapevolezza di dover intraprendere nuovi stili di vita legati alla responsabilità del cambiamento personale e dell’organizzazione della vita nostra vita sociale.
Lo stile di vita è sempre più un insieme di buone pratiche di vita legate alla prevenzione, alla coscienza delle conseguenze delle nostre scelte ed azioni, alla relazione intergenerazionale e al futuro della vita nel suo complesso.
intervento di introduzione ai lavori di gruppo a cura di
• Vazzoler Marina, Regione Veneto, Prevenzione, Sicurezza alimentare, Veterinaria
Ambiti tematici: Aria, Acqua, Suolo, Alimentazione
Sabato 10 marzo 2018 | Incontro aperto anche al Pubblico
ETICA DELL’ORGANIZZAZIONE SANITARIA
Un elemento di ulteriore complessità concerne oggi il ruolo delle istituzioni sanitarie e le modalità con cui vengono organizzate e gestite (dalla conduzione dei servizi alla distribuzione del personale e così via), non ultimo in riferimento alle risorse stesse e ai diritti sociali.
Spesso si coagulano su questi punti veri e propri conflitti tra organizzazioni e cittadini, in cui si trovano frustrati tanto gli intenti degli operatori che le richieste dei cittadini. Le istituzioni e le organizzazioni ricavano il loro significato dall’essere i luoghi che danno corpo e concretezza agli orientamenti etico-sociali per una buona coesione sociale.
Da tutto ciò alcuni interrogativi: l’etica nell’organizzazione sanitaria esiste oppure è lasciata ai singoli? Le istituzioni sanitarie: tra nuove emergenze e “terrorismo ragionieristico”: verso quale welfare? Nuovi problemi di bioetica e giustizia sociale: quali i vantaggi dell’etica? Quali ricadute di buona comunicazione e di permeazione dell’etica nella scelta delle risorse?
Programma
9.30 – 13.00 | Parte prima
9.30 | introduzione: BIAGI Lorenzo, Fondazione Lanza
9.45 | relazioni
• FLOR Luciano
Direttore Generale Azienda Ospedaliera di Padova
• REBBE Vincenzo
Ordinario di Scienza delle Finanze, Dipartimento di Scienze
Economiche e Aziendali “M. Fanno”, Univ. di Padova
12.15 – 13.00 | in dialogo con i relatori
14.00 – 16.30 | Work App | Sessione riservata agli iscritti
L’organizzazione sanitaria
Quali le nuove esigenze del cittadino? Quali i diritti, i doveri, i costi?
coordinatori
BERTIN Germano, giornalista
BON Giuseppe, Operatore Sanitario
GASPARETTO Alessandra, Bioeticista
POZZATO Alex, Bioeticista
SANDONA’ Leopoldo, Bioeticista
Impresa, finanza, assicurazioni: una sinergia vincente, a vantaggio di tutti e di ciascuno
(di Susanna Celi, CEO Swissdacs Group e Alfredo Spadaro, President CEO Swissdacs Group
Il progetto denominato Easybond , è un sistema che supporta il mondo del credito attraverso strutturazioni assicurative innovative finalizzate a favorire la liquidità, indispensabile alla vita delle imprese.
Il know how necessario alla costruzione del core business, attinto da molteplici àmbiti di conoscenza, ha determinato la creazione di una nuova professionalità trasversale, che media tra i settori finanziario, assicurativo, economico e normativo.
Dal confronto con parti istituzionali di livello internazionale e nel riscontro con il mercato, sappiamo che fino ad ora nulla è stato ideato con questa prospettiva. Ci auguriamo che questo sistema possa diventare presto uno standard a vantaggio di tutte le imprese.
Dare respiro alle imprese
Negli anni immediatamente successivi alla crisi finanziaria del 2008, al conseguente credit crunch e alla concomitante crisi economica che ne derivò, ci ponemmo la questione di come si sarebbe potuti intervenire per dare respiro alle imprese sempre piú strette nella morsa della situazione.
Partivamo forti di alcuni princípi per noi fondamentali su cui si è sempre basata la nostra azione imprenditoriale:
• l’economia deve rispondere a bisogni reali del mercato e non crearne di indotti;
• il buon gesto economico deve permettere a tutte le parti coinvolte di ottenere il proprio utile: il fornitore, il giusto guadagno; il cliente, la soddisfazione in relazione al bene o servizio ricevuto a fronte di un costo equo;
• l’imprenditore deve avere la capacità di creare fonti di reddito originale, nel senso di nuovo, per far evolvere il mercato in base alle esigenze che questo esprime; deve saper usare adeguatamente le risorse a propria disposizione, massimizzandone le potenzialità senza alcun spreco o sfruttamento incondizionato, privilegiando la conoscenza e l’esercizio della propria intelligenza quali risorse illimitate, condivisibili e generatrici di valore aggiunto; deve avere, inoltre, consapevolezza assoluta del tempo come risorsa infungibile per sé e per gli altri.
E in quanto operatori nel settore eravamo e siamo fermamente convinti che:
• il mondo finanziario e assicurativo non debba ritenersi un’entità astratta a sé stante, fuori dal controllo umano e pertanto ingovernabile e da demonizzare, ma in quanto composto esso stesso da imprese gestite da persone, debba rispondere a finalità di mercato nel rispetto di norme etiche precedentemente date;
• la finanza debba avere un ruolo sussidiario rispetto all’economia reale e non un intento speculativo preminente;
• l’assicurazione, nella sua essenza solidaristica, debba affiancare le imprese nell’assunzione del rischio, aiutando queste ultime nel discernere il buon rischio d’intrapresa dall’azzardo.
In quell’epoca eravamo ancora in Italia a capo di una nostra società attiva nel campo del risk management e assicurativo e, attraverso un organismo di network e ricerca da noi coordinato1, cominciammo a monitorare sia il mercato bancario sia il mercato assicurativo in relazione al mondo dell’economia reale, per coglierne le discrasie, verificarne le congruità con i bisogni effettivi delle imprese ma, soprattutto, per individuarne potenzialità nuove non sfruttate.
La ricerca si focalizzò su alcuni punti con particolare attenzione alle ricadute nell’area europea, quali:
• la globalizzazione dei mercati e il conseguente radicale cambiamento nella distribuzione della produzione, dei servizi e del consumo;
• la definitiva rottura degli equilibri su cui si reggevano economia e finanza mondiali;
• la finanziarizzazione dei mercati, la successiva crisi finanziaria, le bolle immobiliari con progressiva perdita del valore degli assets di capitale, la conseguente crescente contrazione del credito;
• la perdita da parte delle banche, per la crisi di fiducia ingeneratasi, del ruolo di garante dell’economia reale, spesso divenuto prevalente sul ruolo primario di raccolta e gestione del risparmio e finanziamento delle imprese;
• il mondo molto compartimentato delle assicurazioni e spesso conservatore soprattutto nell’area continentale europea, focalizzato prevalentemente su mercati tradizionali anche nell’ambito del credito e delle garanzie;
• gli interventi dei vari organismi internazionali e nazionali per ridare stabilità al mercato, in particolare le successive emanazioni della Bank for International Settlements (BIS) con gli Accordi di Basilea II e III (Basel II e Basel III);
• le emanazioni dei diversi regolatori.
Il risultato dell’indagine ci indirizzò nel dare soluzione a una delle esigenze che emergevano sempre piú pressanti del mercato globale: la capacità di dare credito, la capacità di ottenere credito, in una parola la liquidità.
Dare credito in modo sicuro ed efficace
Nel 2012 lasciamo l’Italia e ci trasferiamo in Svizzera dove fondiamo la nostra prima società2, con l’intento di realizzare un progetto atto a soddisfare questo bisogno vitale per l’economia.
La scelta della Svizzera come Paese primo ove intraprendere la costruzione dell’idea, emergeva da un’attenta valutazione. La Svizzera, infatti, non fa parte dell’Unione Europea, ma si trova nel cuore dell’Europa, quindi offre un punto di osservazione privilegiato; è un Paese liberale, economicamente sano sia a livello pubblico che privato; ha un assetto finanziario e una piazza bancaria di primaria importanza a livello globale; è tra i Paesi al mondo piú assicurati e ha un apparato assicurativo di tradizione, fortemente conservativo e rigidamente normato; ha strutture scolastiche di qualità con centri di eccellenza in àmbito di istruzione superiore e ricerca.
I due anni successivi vengono interamente dedicati alla ricerca e alla formazione, durante i quali entriamo ufficialmente a far parte del sistema assicurativo-finanziario svizzero con l’iscrizione al registro FINMA (Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari) e, sempre con la focalizzazione nel dare una soluzione innovativa al problema della liquidità sul mercato, continuiamo lo studio in team e approfondiamo conoscenze nei quattro settori chiave: assicurativo, finanziario/bancario; imprenditoriale; regolamentativo.
In sintesi:
• affrontiamo comparativamente i primi due settori assicurativo e finanziario/bancario, analizzandone i rispettivi linguaggi, l’offerta, le potenzialità, i limiti e i quadri normativi di riferimento per verificarne compatibilità e poter innovare il segmento di mercato di entrambi;
• nel settore assicurativo analizziamo e studiamo i prodotti e i servizi offerti dai singoli players, il loro posizionamento di mercato, i loro appetiti di mercato, sottoscrivendo accordi con le maggiori Compagnie a livello europeo;
• nel settore bancario studiamo i prodotti finanziari disponibili, le strutturazioni dei finanziamenti, la costruzione di costo dei finanziamenti, le differenze tra banche in relazione alla classificazione bancaria (standard, IRB base e avanzato) e le sue conseguenze in relazione ai parametri di rischio e capitale; studiamo la normativa emanata dalla BIS in particolare gli Accordi di Basilea II e Basilea III e successivi ampliamenti e recepimenti a livello di Comunità Europea e singoli Paesi, per verificare la possibilità per gli strumenti assicurativi di essere fattore di mitigazione del rischio di credito; entriamo in contatto diretto con il Comitato di Basilea e con gli organi di controllo e le Banche Centrali di alcuni Stati;
• in relazione ai parametri per l’eleggibilità delle polizze assicurative come fattore di mitigazione del rischio di credito per le banche, affrontiamo il quadro delle ECAIs relativo all’attribuzione dei ratings, ed entriamo in contatto diretto con le maggiori agenzie internazionali, tra le quali Moody’s, Standard & Poors, AM Best.
La sfida era quella non di spostare liquidità già esistente da un settore all’altro per compensare a seconda delle maggiori esigenze del mercato, come fino ad allora era avvenuto, ma di trovare un sistema innovativo per generarne di nuova.
Il concetto di liquidità a cui ci riferivamo era da noi concepito nella sua interezza in quanto elemento necessario a un’impresa per affrontare tutto il processo produttivo nelle sue distinte fasi.
La capacità finanziaria preventiva
Un’impresa, infatti, è in posizione di emettere fattura quando il suo prodotto è pronto per essere fornito. Ma in una linea temporale ideale l’impresa deve avere una capacità finanziaria preventiva per essere in grado di operare, essa deve cioè colmare il divario temporale necessario per ottenere materiali di base, servizi, forza lavoro, sostenere i costi operativi e altri tipi di spesa fino a raggiungere lo stato di fatturazione.
Durante tale periodo l’impresa può solo contare sulla propria capacità finanziaria. Ove il divario temporale fra fatturazione e ricezione del relativo pagamento può essere risposto tramite finanziamenti bancari ad hoc, factoring o polizze assicurative del tipo “singolo rischio”, “rischio selettivo”, “intero fatturato”, eccedenza di perdita, top up, rimaneva aperto il problema di come rispondere alla necessità di liquidità fra l’inizio delle fasi operative e il raggiungimento dello status di fatturazione, ossia nel momento in cui un’impresa è piú vulnerabile e deve sostenersi con le proprie forze.
Non diverge per un’impresa commerciale o di servizi, che deve comunque performare prima di fatturare e a propria volta deve preventivamente farsi carico di determinati costi reali d’acquisto.
Se da un lato, dunque, dovevamo rafforzare e incrementare gli strumenti già esistenti, dall’altro dovevamo rispondere al problema irrisolto per cui il mondo assicurativo/finanziario non aveva ancora una soluzione strutturale.
L’analisi comparativa dei due settori assicurativo e bancario, nella loro rispettiva azione verso le imprese, ci condusse a una constatazione rilevante: entrambi i soggetti applicavano modalità di analisi di merito di credito e indici di valutazione basati sui bilanci, la storia creditizia, il posizionamento sul mercato, la forza del prodotto e altri aspetti significativi, ove tuttavia i parametri generali erano simili, ma non uguali.
Constatammo che mediamente il margine di differenza di valutazione, se combinata, tra i due sistemi, poteva generare un incremento tra il 20% e il 25% di bontà creditizia per i soggetti valutati, il che poteva significare un altrettanto aumento percentuale del volume globale dei prestiti bancari a favore delle imprese.
La domanda allora era perché questo vantaggio che poteva derivare dal combinare gli indici di merito di credito bancario e assicurativo non fosse sistematicamente sfruttato a beneficio dell’economia reale.
La risposta ci venne dall’analisi dei rispettivi linguaggi dei due settori bancario/finanziario e assicurativo.
Pur collegati da un comun denominatore, ossia la valutazione e la gestione del rischio, ciascun attore, banca o assicurazione, si attende infatti che l’altro comprenda, interpreti, applichi i tecnicismi della controparte e sia nei confronti flessibile. La conseguenza è che la sinergia tra i due mercati nel tempo è risultata essere del tutto marginale anche nella situazione di migliore collaborazione dei due settori.
Pertanto, per arrivare ad addizionare i vantaggi del merito di credito attribuito a un soggetto imprenditoriale rispettivamente da una banca/istituto di credito e da un’assicurazione, bisognava compiere innanzitutto un’operazione di “traduzione concettuale bidirezionale” del tecnicismo dei due settori.
Intanto, analizzavamo e sondavamo tutte le possibilità offerte dal mondo assicurativo a livello globale. Decidemmo di reperire ogni prodotto che potesse intervenire nella copertura del rischio di credito, attingendo anche a settori assicurativi non tradizionali e concependo il loro utilizzo in modi completamente innovativi rispetto alle usuali applicazioni.
Innovazione e vantaggio competitivo
In contemporanea, esaminando il mondo del credito nella sua operatività, nell’offerta ai clienti, nei limiti dati dal quadro normativo con riferimento alle emanazioni degli Accordi Basilea II e III, verificavamo in che modo fosse possibile un intervento mirato e innovativo del mondo assicurativo su di esso, mantenendo un vantaggio competitivo per tutte le parti coinvolte: compagnie assicurative, banche/istituti finanziari, imprese.
Con l’utilizzo di fonti scientificamente accreditate, mantenevamo costantemente sotto osservazione l’evoluzione finanziaria internazionale, con un’attenzione prevalente per l’area europea, monitorando il crescente credit crunch e valutando la serie di concause che apparivano determinarlo, le quali molto spesso si ravvisavano causa ed effetto di se stesse in un circolo vizioso stagnante e all’interno di un quadro economico e finanziario in progressivo deterioramento, tra le piú evidenti:
• l’indebitamento di molte banche a valle della crisi finanziaria;
• l’abbassamento graduale del merito di credito di molte imprese vittime della crisi economica;
• il deterioramento di alcune tipologie di garanzia per accedere al credito, ad esempio le ipoteche per effetto del deprezzamento del mercato immobiliare;
• il venir meno di alcuni soggetti garanti consortili a sostegno delle imprese;
• la minor circolazione di capitali e la contrazione del risparmio privato.
L’obbligo, inoltre, di rispondere ai parametri indicati dall’Accordo di Basilea III da parte delle banche con l’innalzamento del capitale da detenere (dall’8 al 10.5% del patrimonio entro il 2019) per aumentare la stabilità del sistema e la sua capacità di assorbire le perdite, determinava e continua a determinare costi di adeguamento tali da generare anche effetti restrittivi sull’erogazione del credito.
A oggi il sistema bancario internazionale deve, infatti, confrontarsi e allinearsi con il Basel III e successive integrazioni e si sta già parlando di un Basel IV.
In àmbito comunitario europeo i contenuti del Basel III sono stati trasposti in due atti normativi, recepiti poi a livello di singoli Stati nelle rispettive legislazioni, ossia:
• il Regolamento (UE) n. 575/2013 del 26 giugno 2013 (CRR), che disciplina gli istituti di vigilanza prudenziale del Primo Pilastro e le regole sull’informativa al pubblico (Terzo Pilastro);
• la Direttiva 2013/36/UE del 26 giugno 2013 (CRD IV), che riguarda, fra l’altro, le condizioni per l’accesso all’attività bancaria, la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi, il processo di controllo prudenziale, le riserve patrimoniali addizionali.
L’analisi del quadro normativo riferito al mondo bancario ha occupato una parte sostanziale nello sviluppo del progetto Easybond , non solo per la complessità dell’insieme, la gerarchia delle fonti nonché la messe ponderosa dei documenti da esaminare (normativa internazionale, comunitaria europea, nazionale per singolo Stato, …), ma anche per l’evoluzione celere della materia in relazione alle esigenze sopravvenute con la crisi finanziaria e i successivi rischi sistemici da affrontare da parte delle relative autorità competenti.
Da parte nostra bisognava verificare che tale quadro permettesse o non escludesse l’utilizzo di strumenti assicurativi a sostegno del credito nella concezione innovativa prospettata nel sistema Easybond , verificando in parallelo la costante compatibilità con le norme che governano il settore assicurativo, e questo a livello sovranazionale e per ciascun Paese di interesse:
• asseverato, dunque, che tra gli strumenti atti alla mitigazione del rischio di credito ovvero capaci di alleggerire l’accantonamento di riserva di capitale, contemplati nel Basel II e III e successivi interventi, sono annoverate anche le garanzie personali emesse da società che dispongono di una valutazione del merito di credito di un’ECAI;
• tenuto conto che l’assicurazione può assumere rischio in virtú della sua regolamentazione e organizzazione al di là dei limiti del mondo bancario, per effetto anche delle potenzialità di ridividere lo stesso sul mercato grazie al meccanismo della riassicurazione; e che tuttavia la stessa non può intervenire su rischi di finanza astratta (es. credito per cassa), ma solamente sul credito finalizzato ad operazioni commerciali sottostanti;
• riscontrati l’allineamento delle polizze assicurative ai requisiti enunciati dalle fonti normative per essere configurate nella categoria di garanzie personali quali strumenti di mitigazione del rischio di credito, essendo rispondenti ai dettati; e la potenzialità delle stesse di incidere sulla riduzione dell’accantonamento frazionale di capitale proprio di un ente bancario se emesse da società assicurativa dotata di valutazione di merito di credito di un’ECAI;
appuravamo che le polizze assicurative sono strumento adeguato alla mitigazione del rischio di credito e possono incidere, conformemente ai diversi metodi di valutazione del rischio applicati dall’ente bancario (Standard, IRB base o IRB avanzato), sulla riduzione della riserva frazionale di capitale proprio prevista per legge.
A questo punto si trattava di dimostrare l’economicità e il vantaggio competitivo che il cliente banca e il cliente impresa avrebbero ottenuto nell’utilizzare il sistema Easybond .
Per far ciò bisognava studiare comparativamente il costo della polizza assicurativa con il costo del credito in relazione ai meccanismi dell’operazione commerciale sottostante, per verificare in una casistica quanto piú lata possibile l’incidenza sull’utile della banca in relazione ai finanziamenti concessi, fatto salvo il margine di guadagno per l’assicurazione e un equo costo per l’impresa a fronte di una maggiorazione del credito.
Per una piú efficace operatività
Poiché normativamente nell’accettazione delle garanzie personali, a cui le polizze assicurative vengono assimilate, rileva che l’entità emittente sia in possesso di un rating emesso da un’ECAI; e poiché la classe di rating espressa ha un valore determinante nella percentuale di incidenza dello strumento garanzia nella diminuzione della riserva frazionale da capitale proprio a cui una banca è tenuta per ogni credito concesso e ciò conseguentemente incide nella formazione dei costi; nella costruzione del progetto Easybond dovemmo infine approfondire anche la conoscenza del mondo degli ECAIs, della normativa che li governa, dei meccanismi di attribuzione dei ratings e il valore di utilizzo degli stessi previsto dal legislatore (sia in sede sovranazionale che nazionale).
Procedemmo cosí nell’affrontare insieme a partners bancari e assicurativi una serie di casi di studio, dove ci confrontammo nella formazione del prezzo di operazioni di finanziamento backuppate da strumenti assicurativi, vagliando contemporaneamente, oltre alla conformità competitiva del costo finale, i vantaggi qualitativi che l’applicazione del sistema Easybond poteva aggiungere a tutti i players coinvolti: assicurazioni, banche/istituti finanziari, imprese.
Il risultato apparve comprovatamente positivo: non solo venivano migliorati i margini di maggior utile e minor costo per tutti i players coinvolti ma, a fronte di una maggior disponibilità di liquidità fresca per il sistema, veniva migliorata anche l’operatività delle diverse parti.
In sintesi i vantaggi possono cosí descriversi:
a) per le imprese finanziate:
• maggiore sicurezza nelle vendite;
• ottimizzazione dei costi e delle condizioni di acquisto;
• possibilità di strutturare acquisti a lungo termine;
• maggiore liquidità;
• costi ridotti di finanziamento per aumentata bontà creditizia data dalla copertura assicurativa;
b) per le banche/istituti di credito:
• copertura rischio di credito sia per insolvenza sia per ritardato pagamento (crediti incagliati);
• riduzione degli accantonamenti di capitale previsti dal Protocollo Basilea II e Basilea III per la capacità di mitigazione delle polizze assicurative sul rischio di credito;
• rimborso degli affidamenti con termini e tempi certi;
• margine di utile aggiuntivo sul finanziamento;
• marketing e miglior posizionamento sul mercato per utilizzo del sistema Easybond ;
per le assicurazioni:
• apertura di un nuovo settore di mercato: le banche/istituti finanziari, non piú concepiti come clienti di polizze tradizionali oppure canali di distribuzione dei prodotti assicurativi per la propria clientela, ma sottoscrittori di polizze a tutela del credito concesso per operazioni commerciali.
Nella seconda metà del 2015 il nostro progetto imprenditoriale è pronto. Lo definiamo un sistema di ingegnerizzazione del rischio finanziario. Easybond viene registrato presso l’EUIPO-European Union Intellectual Property Office e presso l’IGI/IPI Istituto Federale della Proprietà Intellettuale – Svizzera.
In una versione multilingue pubblichiamo nella sua completezza il pannel dei prodotti del sistema Easybond , attraverso la gestione dei quali il nostro team crea ogni volta costruzioni personalizzate per le esigenze di ogni cliente. Il fattore chiave risiede nel know how necessario a far dialogare i quattro settori in contemporanea: il settore assicurativo, il settore finanziario/bancario, il settore imprenditoriale, il settore regolamentativo. La professionalità è nuova.
Viene perfezionato il software Easybond di supporto operativo al sistema, già strutturato nella sua costruzione essenziale, leggero e aperto per un progressivo costante perfezionamento anche in relazione alla connettività con i protocolli operativi di ciascuna assicurazione o banca/istituto finanziario coinvolti a favore del finanziamento delle imprese per i loro progetti di economia reale, affiancato da un secondo software proprietario denominato Riskdacs 3 di nostra ideazione a supporto della valutazione del rischio imprenditoriale.
Nel 2016 inizia la presentazione del sistema Easybond al mercato, a cominciare da Austria, Italia, Svizzera, Germania, Slovenia, Inghilterra, Spagna, privilegiando in un primo momento, date le sue potenzialità strategiche a livello sistemico, una presentazione istituzionale prima di intraprendere un’operazione tradizionale di marketing.
La reazione delle istituzioni contattate e delle banche/istituti di credito approcciati direttamente è immediata e di assoluto interesse. Alcune banche hanno già sottoscritto mandati per l’utilizzo del sistema, studiando i prodotti della piattaforma e la loro applicabilità in relazione a specifiche esigenze, altre banche sono in diversi stadi di analisi, studio applicativo, revisione legale. Associazioni di categoria e agenzie di sostegno pubblico alle imprese in alcuni casi hanno già firmato accordi di utilizzo del sistema Easybond a favore dei loro associati, altre sono in avanzato stato di trattativa.
La reattività verificata in ogni Paese approcciato è prova dell’assoluta rispondenza del sistema Easybond alle necessità del mercato globale. La potenzialità di domanda (banche/istituti finanziari e, a cascata, imprese finanziate) è ben oltre le possibilità di rispondenza delle assicurazioni, quindi lo spazio di movimento è enorme e includente per tutti i “competitors”.
Una soluzione alla liquidità
Ora possiamo oggettivamente sostenere che Easybond dà in maniera dimostrata una soluzione significativa al problema della liquidità, permettendo sia alle banche una maggiore e migliore gestione del credito sia alle imprese una accresciuta possibilità di ottenere credito per aumento della loro bontà creditizia attraverso l’assicurazione.
Si tratta di un volano di business che coinvolge tutta la catena finanziaria/bancaria, assicurativa e imprenditoriale in un meccanismo trasparente che genera nuova liquidità, dal quale tutti, nella tutela dell’attuale severità normativa, possono trarre un vantaggio sia competitivo che economico.
Naturalmente siamo solo all’inizio e in continuazione veniamo a confrontarci con innumerevoli problemi, ad iniziare dalla difficoltà di spiegare e far recepire un sistema completamente nuovo ad un mercato consolidato come quello finanziario e assicurativo, dove il maggior pericolo è la tendenza dell’interlocutore a semplificare il concetto nei termini di quanto lui già conosce, smettendo di ascoltare e quindi di cogliere le eventuali opportunità di miglioramento.
La resistenza al cambiamento è un altro scoglio arduo, soprattutto in organizzazioni manageriali, in cui il timore del singolo ad assumersi la responsabilità di introdurre un’innovazione a fronte di un possibile insuccesso gioca un ruolo deterrente.
La necessità di rapportarsi con istituzioni di varia estrazione e livello, di affrontare nazioni diverse in condizioni differenti, con codici di comportamento e di lingua da rispettare, l’esigenza di immedesimarsi nella visione di ogni interlocutore per riuscire a cogliere la zona franca di contatto e comprensione reciproca, la capacità di intendere linguaggi settoriali tecnici, sono solamente alcune altre difficoltà che quotidianamente affrontiamo.
Ad oggi, la nostra struttura societaria si è evoluta e oltre alla Svizzera, abbiamo sedi in Austria e Inghilterra e corrispondenti in vari Paesi per poter seguire i nostri clienti in maniera globale ed essere allineati con le norme stringenti dei diversi Regolatori e Autorità di controllo dei mercati assicurativi e finanziari internazionali. Abbiamo optato per un’organizzazione leggera, flessibile, costruita sullo smart working e, poiché la nostra maggior risorsa è il know how, un’attenzione essenziale viene attribuita alle nostre risorse umane, la formazione delle quali è per noi un’altra sfida improba perché siamo consapevoli di dover innovare anche in questo settore.
Ci auguriamo di essere pionieri di un positivo contributo per l’economia e di un rinnovamento concreto per il mondo finanziario, o almeno ci proveremo ad oltranza.
Susanna Celi, CEO Swissdacs Group
Alfredo Spadaro, President CEO Swissdacs Group
1) Cfr.: Global Economic Network, www.globalplatform.co.uk.
2) Swissdacs GmbH Switzerland, ora capofila del Gruppo Swissdacs con sedi anche in Austria e Inghilterra e corrispondenti in altri Paesi dell’Unione Europea e extraeuropei. (www.swissdacs.com).
3) Cfr.: www.riskdacs.com
Professioni Accoglienza
Il momento storico-sociale che stiamo attraversando, con l’accavallarsi e il rincorrersi quotidiano di avvenimenti accelerati dalla comunicazione globale, sembra avere un tema di sottofondo che stentiamo ad assumere all’interno di una riflessione piú matura e ponderata. Non fatichiamo ad accorgerci che questo tema concerne l’incontro con l’altro. A differenza del secolo scorso che si è chiuso con una vasta riflessione sull’altro, accostata da diversi punti di vista, questo inizio del secolo XXI sembra essere incappato proprio nelle labirintiche difficoltà del rapporto con l’altro. La situazione politica, sociale, religiosa, ambientale ed economica di questo ultimo scorcio di tempo, continua a gettarci davanti (è il significato etimologico della parola “problema”) le interminabili sfaccettature e dimensioni dell’incontro con l’altro. Sembra che abbiamo smarrito irreparabilmente quanto evidenziava il grande antropologo Claude Lévi-Strauss: «La scoperta dell’alterità è quella di un rapporto, non di una barriera». Sembra, per l’appunto, che noi facciamo l’esperienza piú della barriera che del rapporto.
Per questo qualcuno inizia a mettere in cima alle sfide del secolo XXI la questione dell’incontro con l’altro. Non a caso, l’antropologo francese Marc Augé ha affermato che è urgente ripensare la nozione di frontiera in un’epoca che vorrebbe disfarsene: «la frontiera non dovrebbe essere vista come una barriera insuperabile quanto piuttosto come un confine che può e deve essere attraversato e, ancora, come un limite da rispettare perché definisce la distanza minima necessaria per essere veramente liberi». La nostra epoca non vuole saperne di frontiere, proprio perché pensa di ricostruire muri. E i muri chiudono il nostro sguardo verso l’altro, mentre la frontiera indica la presenza – possibile e imminente – dell’altro. E non si tratta solo di ripensare il senso delle frontiere geopolitiche, ma anche di quelle piccole frontiere quotidiane che tanto nel posto di lavoro quanto nelle relazioni familiari, sembrano presentare problemi crescenti.
Eppure, anche di fronte a dinamiche sociali che sembrano smentirlo, il principio chiave dell’essere umano può essere cosí riassunto: è interessandosi agli altri che si impara a conoscere sé stessi. Cercare di conoscere l’altro da sé, come ha affermato ancora Marc Augé, significa mettere alla prova la relazione – fra un individuo e gli altri – che sta al centro dell’identità sociale, ma anche personale. Migliorare questa conoscenza significa abbandonare l’isolamento, sia per quanto riguarda me stesso, sia per quanto riguarda gli altri. “Mai senza l’altro”, ha osservato Michel De Certau, cogliendo cosí la formula sintetica e la declinazione di questo principio antropologico fondamentale.
Chi è questo altro o, meglio, chi sono questi altri? Ryszard Kapuscinski, da quel grande osservatore e narratore che è stato, ha scritto che sono persone fatte da due parti spesso difficili da separare. Una è l’uomo uguale a noi, con le sue gioie e i suoi dolori, i giorni fasti e quelli nefasti, che teme la fame e il freddo, che sente il dolore come una sventura e il successo come soddisfazione e appagamento. L’altra, sovrapposta e intrecciata alla prima, è l’identità culturale e religiosa. Le due parti non appaiono mai distinte, allo stato puro e isolato, ma convivono influendo l’una sull’altra. Senza mai dimenticare che anch’io, infine, sono sempre un altro per gli altri.
L’accoglienza, pur tra mille difficoltà e contraddizioni, ma anche tra opportunità e creatività, sta diventando la cifra per affrontare la sfida di questo secolo, quella dell’incontro con l’altro. L’altro che viene da fuori, ma anche l’altro che abbiamo in casa, e che forse abbiamo “costruito” noi, magari perché disabile, svantaggiato, malato, carcerato … Sta di fatto che, a pensarci bene, non vi è professione che non abbia a che fare con l’altro, e non solo in quanto collega, ma anche come interlocutore, utente, cliente, cittadino. Le professioni di fatto hanno qui una opportunità decisiva per ripensarsi nel loro statuto, sociale, giuridico, economico e culturale. L’opportunità di ripensarsi dopo una stagione in cui sono state inghiottite dall’io che “si fa da sé”, che mira solamente alla prestazione remunerata, comunque vada e senza tante etiche, se non a parole.
Questo numero della rivista raccoglie, valorizzando soprattutto le esperienze in atto, una ricca espressione di stili e pratiche di accoglienza per poter riformulare lo spirito professionale che non di rado si è appannato non solo nei singoli, ma anche nelle organizzazioni. Proprio queste pratiche sembrano insegnarci che grazie all’accoglienza dell’altro possiamo ridare senso e valore a ogni professione che ci vede impegnati. E da qui riscoprirci dentro il progetto di costruzione di una umanità non piú ripiegata sull’io, ma valorizzata dal fatto di essere dentro un “noi”.
Lorenzo Biagi
La vita che nasce: dilemmi e potenzialità
La complessità che oggi caratterizza la nostra vita quotidiana coinvolge anche il momento dell’inizio vita, non solo in occidente, ma a livello globale.
Si rende necessaria una rilettura di tale complessità alla ricerca di chiavi di lettura capaci di andare a leggere e affrontare i dilemmi e le potenzialità dell’inizio vita, a partire dall’esperienza concreta di persone, comunità, operatori e istituzioni.
I temi aperti più sfidanti che stanno dinnanzi sono: la diagnosi prenatale, la procreazione assistita, la maternità surrogata, l’aborto.
La giornata formativa (2 dicembre 2017 | 9.30-16.30 c/o Fond. Lanza, Padova | Via Dante 55) proposta dalla Scuola di Bioetica promossa e organizzata dalla Fondazione Lanza insieme alla Rivista “Etica per le professioni” affronterà questi temi affidandosi alle riflessioni proposta dalla dott.ssa Mariateresa GERVASI (Ostetricia e Ginecologia, Azienda Ospedaliera Padova) e al supporto di approfondimento accompagnato da Alex Pozzato, Alessandra Gasparetto, Leopoldo Sandonà, Giuseppe Bon (equipe didattica Scuola di Bioetica | Fondazione Lanza – EPP)
TRENT’ANNI di BIOETICA
Dialogo sullo “stato di salute” della bioetica oggi
La bioetica viene da una intensa stagione di scritti vari, di articoli, di manuali, di riviste, ma anche da un periodo di contrapposizioni e di scontri che non sempre hanno aiutato le persone a farsi un’idea chiara delle questioni in gioco.
Oggi la bioetica pare essere entrata anche in una stagione nuova, caratterizzata da nuove sfide e nuove emergenze sociali, economiche ed ambientali, oltre che di giustizia sociale, che stanno riconfigurando lo statuto della vita umana e della salute delle persone e delle popolazioni.
Per questo pare essere giunto il momento di interrogarci sullo “stato di salute” della stessa bioetica: da dove viene, a che punto si trova, dove sta andando, come si muovono i diversi soggetti implicati, quali sono le nuove sfide e le nuove vie da intraprendere, quali occasioni di formazione aperta a tutti possono essere coltivate.
Al Convegno di sabato 11 novembre 2017 (9.30-13) a Padova c/o sede Fond. Lanza in Via Dante 55:
introduce
• BIAGI Lorenzo, Fondazione Lanza, Segretario generale
intervengono
• BARBISAN Camillo, Servizio di Bioetica, Azienda Ospedaliera di Padova
• BUSATTA Lucia, Università di Padova
• DA RE Antonio, Filosofia morale, Università di Padova
• MENEGHELLO Francesca, Ospedale San Camillo, Lido Venezia
• PEGORARO Renzo, Pontificia Accademia per la vita, Roma
coordina
• BERTIN Germano, Rivista “Etica per le professioni”
Siamo un popolo incivile? Oppure, piú semplicemente, siamo cosí abituati a indossare, di volta in volta, maschere per “salvarci la faccia”, che …? Sono domande che sempre piú spesso ci piovono addosso. Non fosse altro perché quasi ogni giorno veniamo a conoscenza di comportamenti di corruzione e di immoralità professionale, che svelano pratiche per nulla isolate o imputabili alla solita classe politica e burocratica.
Il momento tumultuoso che stiamo attraversando lascia intendere che tutta questa attività illegale e di corruzione non rinvia solo a organizzazioni note e delineate, ma anche alla presenza significativa di una corruzione e di una illegalità ormai diffuse all’interno del corpo stesso del nostro Paese. In altre parole, l’impressione è che il malcostume incivile sia ben distribuito e ben insediato nel corpo della stessa nostra società italiana. Dobbiamo essere consapevoli di questo ma non fermarci qui.
C’è una limpida ed essenziale frase di Aristotele: «Chi è cittadino? È cittadino colui che è capace di governare e di essere governato». Forse che oggi questa sobria e incoraggiante visione aristotelica non risponde piú alla nostra realtà di vita civile? Non sono pochi a ritenere che oggi tutta la vita politica ed economica sembra mirare precisamente a farci disimparare la cittadinanza responsabile, a convincerci che i problemi devono essere affidati agli esperti, ai tecnici, perché come semplici cittadini non ne siamo in grado. Esiste dunque un movimento neanche tanto implicito di contro-educazione politica. Gli stessi nuovi movimenti populistici si reggono su questa contro-educazione, nel momento in cui non si avvicinano al popolo dei cittadini per servirli ma per agitarli contro tutto. Mentre ciascuno di noi dovrebbe abituarsi a esercitare ogni sorta di responsabilità e a prendere iniziative, veniamo invece abituati a seguire, o ad assumere decisioni presentate da altri. E qual è il risultato? Dato che la gente non è affatto idiota, Cornelius Castoriadis sosteneva che è sempre meno disposta a credere, e diventa sempre piú cinica. Passa dal “civismo” al “cinismo”, come ha scritto una volta Ilvo Diamanti.
E non facciamo fatica a costatare che le attuali istituzioni ci respingono, ci allontanano, ci dissuadono dal partecipare alla politica come capacità di governare e di essere governati. Mentre diverse ricerche ed esperienze anche nel nostro Paese ci mostrano che la migliore educazione civica è la partecipazione attiva alla cura dei beni comuni. Questo però implicherebbe una trasformazione delle istituzioni per consentire e incentivare questa partecipazione.
L’educazione dovrebbe essere molto piú imperniata sul bene comune e sulla casa comune. Occorrerebbe comprendere i meccanismi dell’economia, della società, della politica e cosí via. Dobbiamo riconoscere, certo, che non è facile. Il cittadino di Aristotele non era immerso in quella che oggi chiamiamo sinteticamente la “complessità” dei problemi che ci riguardano tutti. In questo numero della nostra rivista infatti non viene taciuta né rimossa la complessità dell’essere cittadini che partecipano all’impresa comune della convivenza.
Complessità legata all’intreccio o alla connessine dei vari problemi e sfide. Non ultima la configurazione globale di diverse problematiche, soprattutto economiche, ambientali, finanziarie, sociali e geopolitiche. Ma l’apporto dei contributi qui proposti non si lascia paralizzare da questa situazione. Gli interventi della prima parte offrono una lettura della realtà avendo di mira non tanto una mera diagnosi ma lo sforzo di aprire piste percorribili proprio nel mezzo della complessità in cui ci troviamo. Mentre nella seconda parte la ricchezza delle esperienze in atto e delle pratiche che una molteplicità di associazioni e di gruppi di cittadini stanno portando avanti concretamente, ci apre un orizzonte promettente per il nostro impegno di cittadini attivi e responsabili. Non sono soltanto belle parole ma opportunità reali di praticare la saggezza di governare ed essere governati.
Il desiderio di partecipazione – come ebbe ad affermare Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio Ambrosoli, assassinato l’11 luglio 1979 da un sicario ingaggiato dal banchiere siciliano Michele Sindona, sulle cui attività Ambrosoli stava indagando – ha bisogno di confini piú larghi degli steccati dei partiti nazionali, perché se da una parte esiste la politica istituzionalizzata nei partiti e dall’altra l’antipolitica, corrosiva e distruttiva, solo il civismo – con la sua apertura – può dare una risposta alla partecipazione, senza imbrigliarla in uno schematismo chiuso e stretto. E noi condividiamo con lui questa prospettiva, anche se è esigente e richiede un risveglio dalla nostra apatia e dalla nostra frustrazione. Se il civismo viene definito come «la sensibilità per le esigenze della comunità in cui il cittadino vive» e come «il senso dei propri doveri di cittadino», è da qui che dobbiamo iniziare, cioè da noi stessi, in quanto consapevoli che il destino del bene comune è consegnato anzitutto alla nostra cura. Dunque, è davvero tempo di “toglierci la maschera”: e cominciare ad agire.
Lorenzo Biagi
MILANO, 1 – 2 aprile 2017 | “ETICA CIVILE … E OLTRE?” | Secondo Forum nazionale di Etica Civile
• Si svolge l’1-2 aprile 2017 al Centro San Fedele (Via Hoelpi 3/B) a Milano, promosso da un network di associazioni attive in tutto il territorio italiano.
• Un convegno per ritrovare le ragioni per vivere bene assieme, nelle nostre città, nello spazio nazionale, nella società globale.
• Un appuntamento aperto a tutti, un invito alla condivisione di tante pratiche civili, al dialogo a molte voci, alla ricerca di prospettive di bene comune.
• Quattro le sessioni previste, con momenti assembleari e gruppi di confronto e discussione.
• Tra i relatori, il cardinale Peter Turkson, Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, l’ex magistrato Gherardo Colombo.
• Sabato sera, uno spettacolo di teatro civile sul tema della crisi economica, prodotto da Pop Economix.
La Fondazione Lanza di Padova in sinergia con la Rivista “Etica per le professioni” promuove il primo “DIALOGO SULLA CITTÀ”
che si terrà il 17 dicembre (9.30-13.00) presso la Fondazione Lanza, via Dante 55, Padova.
sul tema “IMMAGINARE LA CONVIVENZA E L’AMBIENTE DI DOMANI”.
Il Dialogo sarà un’occasione per stabilire e approfondire i contenuti di un più ampio Convegno internazionale sullo stesso tema da tenersi nel 2017.
L’immaginazione della città futura sarà affrontata dalle più diverse e numerose prospettive ricondotte alle questioni di fondo della convivenza e dell’ambiente.
Al Dialogo – a seguito delle relazioni introduttive del Professor Francesco Musco (IUAV), della Prof.ssa Luisa Bravo (QUT, Brisbane) e del dott. Fernando Zilio (Presidente della Camera di Commercio di Padova) – saranno chiamati a dare il proprio contributo i partecipanti presenti.
Vorremmo attivare la discussione partendo dalle seguenti antinomie che si presentano nel dibattito quotidiano sulla città (“temi in piazza”):
Ponti o muri? Labirinto o giardino? Reti o persone?
Mobilità o residenzialità? Organizzazione o competizione?
Informazione o comunicazione? Dirigismo o partecipazione?
Integrazione o identità? Recupero o nuove costruzioni?
Verde o cemento?
La partecipazione è aperta e libera.
È gradita la registrazione della presenza, scrivendo a info@eticaperleprofessioni.it
Francesco Dondi, Prof. Ordinario di Chimica Analitica, Facoltà di Scienze, Univ. di Ferrara
Frank Moser, Dipartimento di Scienze Chimiche e Farmaceutiche, Università di Ferrara
Il Chemical Leasing (ChL) è un modello di business orientato ai servizi che sposta l’attenzione dal crescente volume delle vendite di prodotti chimici a un approccio a valore aggiunto. Il produttore vende principalmente le funzioni svolte dalla chimica, mentre la base principale per il pagamento è costituita dalle unità funzionali fornite.
L’obiettivo primario consiste nell’aumentare l’efficienza nell’uso dei prodotti chimici, riducendo nel contempo i rischi per l’ambiente e la salute. Elementi chiave del successo dei modelli di ChL sono la condivisione dei benefici, gli elevati standard di qualità e lo sviluppo di un clima di fiducia reciproca tra le imprese partecipanti.
Chances e rischi dell’industria chimica
I prodotti chimici sono presenti in tutti i settori della moderna organizzazione civile e industriale, nella nostra vita quotidiana cosí come in ogni settore produttivo in ragione della loro funzione essenziale quali i lubrificanti, i liquidi di raffreddamento, solubilizzazione e pulizia, o i catalizzatori.
L’industria chimica con un commercio di piú di tre miliardi di dollari nel 2012 è indubbiamente un settore chiave. Si pensi all’importanza di prodotti ausiliari quali le vernici, gli inchiostri, la protezione delle culture, coloranti e pigmenti nell’industria tessile, i saponi, i detergenti, i cosmetici e i profumi. È noto, tuttavia, che molti prodotti chimici cosí essenziali possono avere effetti negativi sull’ambiente e sulla salute.
I prodotti chimici hanno in breve un carattere “duale”, positivo e negativo, come ad esempio un martello che può sia costruire sia uccidere. È pertanto assai urgente uno studio degli aspetti “etici” connessi alle varie attività chimiche.
Nell’àmbito di questa visione, in questo articolo, facciamo riferimento a un progetto di ricerca sul tema “Ethics in Chemistry: Business Models, Risk Management and Governance” (condotto dal Dottorando Frank Moser, con Tutore Francesco Dondi, realizzato presso l’Università di Ferrara, Scienze Chimiche).
Necessità di un approccio “etico” nell’Industria e nel Commercio dei prodotti chimici
La risposta della politica per una gestione corretta della “dualità” della chimica è stata, come noto, ampia, sia a livello nazionale che internazionale. Si pensi, ad esempio, in campo internazionale alla Convenzione di Stoccolma (2001) sui prodotti organici persistenti e inquinanti, al Regolamento europeo REACH (2006) o alla Convenzione di Rotterdam (1998, Prior Informed Consent Procedure for Certain Hazardous Chemicals and Pesticides) o alla Convenzione sulle armi chimiche (1997, Convention on the Prohibition of the Developement, Production, Stockpiling and Use of Chemical Weapons and on their Destruction). Queste convenzioni contrastano duramente il concetto tradizionale di vendita dei prodotti chimici il cui successo era legato ai volumi di vendita. Piú recentemente (2002, World Summit on Sustainable Development, WSSD) si è fatto strada un nuovo concetto secondo il quale la politica di vendita dovesse essere legata contemporaneamente a obiettivi economici e di rispetto dell’ambiente e della salute, perseguendo cioè il concetto di sostenibilità: si è in questo modo dato impulso alla ricerca di nuovi modelli di business basati sull’“etica delle virtú” nei quali i partners (venditori, acquirenti e utilizzatori) adottano una attitudine di fiducia e di cooperazione tra di loro. Noto è il concetto proprio della filosofia giapponese del “kyosei”, che può essere tradotto in “spirito di cooperazione”.
Chemical leasing (Chl): modello “Etico” di business
I modelli di business chiamati Chemical Leasing (ChL) sono stati introdotti per rispondere appunto alla esigenza espressa dal WSSD come approccio nuovo e innovativo nella utilizzazione di prodotti chimici in applicazioni industriali (2005, Perthen-Palmisano e Jakl).
In questo articolo si presenteranno le caratteristiche salienti del modello, rimandando alla letteratura sull’argomento l’approfondimento tecnico, l’evoluzione e la descrizione delle varie applicazioni.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (UNIDO) ha svolto negli ultimi dieci anni un ruolo importante nell’introduzione e promozione di questo modello di business a livello globale. UNIDO (2011) ha messo a punto una definizione di ChL come segue:
«Il ChL è un modello di business orientato ai servizi che sposta l’attenzione dal crescente volume delle vendite di prodotti chimici, verso un approccio a valore aggiunto. Il produttore vende principalmente le funzioni svolte dalla chimica, e le “unità funzionali” sono la base principale per il pagamento.
All’interno dei modelli di business ChL, la responsabilità del fornitore di servizi e del produttore viene estesa e può includere la gestione dell’intero ciclo di vita. Il ChL cerca di raggiungere una situazione win-win. Ha lo scopo di aumentare l’uso efficiente delle sostanze chimiche, riducendone i rischi e proteggendo la salute umana. Migliora la performance economica e ambientale delle società partecipanti e migliora il loro accesso a nuovi mercati.
Elementi chiave per il successo dei modelli di business basati sul ChL sono la condivisione dei benefici, gli elevati standard di qualità e di fiducia reciproca tra le imprese partecipanti».
Il ChL mira a ridurre i rischi provenienti da sostanze pericolose (Ohl e Moser 2007) e, allo stesso tempo, a garantire un successo economico a lungo termine all’interno del sistema globale di produzione e utilizzazione di sostanze chimiche.
Al fine di comprendere i princípi di base dei modelli di business di ChL, Joas (2008) ha fornito una breve panoramica del ChL, iniziando tuttavia la sua introduzione con una descrizione degli aspetti perversi dei modelli tradizionali di vendita delle sostanze chimiche: qui, il produttore commercializza prodotti chimici per l’utente, che li usa nei suoi processi di produzione per eseguire alcune funzioni specifiche. I vantaggi economici del produttore sono però collegati al volume complessivo di sostanze chimiche vendute all’utilizzatore.
Joas, (con Stoughton e Votta ,2003), sottolinea come il concetto di vendita tradizionale, e con esso il tradizionale rapporto fornitore-utente, contenga incentivi perversi per quanto riguarda il volume di prodotti chimici utilizzati nel processo di produzione. Il produttore ha infatti un incentivo ad aumentare i suoi guadagni attraverso la vendita dei suoi prodotti chimici a prezzi piú elevati o in grandi quantità. L’utente, a sua volta, ha l’incentivo opposto a diminuire i volumi di sostanze per risparmiare sui costi.
Tuttavia, secondo Ohl e Moser (2007 e 2008), l’utente può non avere i mezzi tecnologici, né la conoscenza necessaria per raggiungere questo obiettivo. Questo perché le proprietà delle modalità di impiego e dell’applicazione delle sostanze chimiche è raramente parte delle competenze di base degli utilizzatori. Gli obiettivi del venditore e del consumatore sono quindi in conflitto (Ohl e Moser 2007, Perthen-Palmisano e Jakl, 2005, 49).
La spinta a introdurre modelli etici di business di ChL si spiega invece con la loro caratteristica di invertire l’incentivo incarnato nel concetto tradizionale di vendita per aumentare la produzione e l’uso di sostanze chimiche (Joas 2008).
Il principio di base del ChL è il seguente: il pagamento ottenuto dal produttore non è piú determinato dal volume delle sostanze chimiche vendute ma, invece, dal servizio fornito all’utente. Il produttore, ora essendo un fornitore di servizi, ha un evidente incentivo a evitare un inutile consumo di prodotti chimici nei processi che costituiscono il servizio fornito, dal momento che questo inutile consumo farebbe diminuire i suoi ricavi.
Il modello di ChL trasforma cosí l’efficienza delle risorse in un bene economico – anche per il produttore delle sostanze chimiche. Il risparmio sui costi risultanti del servizio fornito e acquistato sono condivisi tra produttore e utente (Beyer 2008, Schott 2008). Inoltre, il modello di ChL aumenta la competitività ambientale ed economica attraverso l’introduzione delle migliori tecnologie disponibili e delle migliori pratiche ambientali (2005, Perthen-Palmisano e Jakl).
La figura del “facilitatore” può giocare un ruolo assai importante nell’identificare partners potenziali e nel fornire assistenza nel corso dell’implementazione, monitoraggio, valutazione e rendicontazione delle attività come è stato dimostrato in un progetto di implementazione di ChL supportato dal National Cleaner Production Centre (NCPC) dell’UNIDO (si veda http://www.unido.org/ncpc.html).
La figura del facilitatore può poi risultare assai importante nell’implementazione di progetti di ChL in Paesi in via di sviluppo o con economie in fase di transizione. I modelli di ChL possono poi essere di tipo diverso, in funzione dell’integrazione o del coinvolgimento del produttore nel processo condotto dall’utilizzatore. Si rimanda alla letteratura(2005, Perthen-Palmisano e Jakl) per un approfondimento di questi aspetti piú specifici.
Esempi di Chemical leasing
Recentemente è stata pubblicata una Review sulle implementazioni del ChL negli ultimi 10 anni (Moser e Jakl, 2014). Sono ivi riportati e presi in considerazione piú di trenta casi-studio, realizzati in molte nazioni.
Questi alcuni esempi: disinfezione in ospedali; pulizia e sgrassamento di superfici; colorazione nell’industria tessile; applicazione di fertilizzanti nell’agricoltura; lubrificazione di apparecchiature; trattamento delle acque; chiusura ermetica di contenitori nell’industria alimentare; trattamento di contenitori in vetro nell’industria di produzione di cibi e bevande; applicazione di colore su contenitori in alluminio; coltivazione di piante in agricoltura; processi di coloratura, riempimento e lubrificazione nell’industria della carta.
Le applicazioni sono state eseguite in Germania, India, Messico, Russia, Serbia, Slovenia, Sri Lanka, UK, Ucraina. Il risparmio di energia è risultato compreso tra il 7% e il 50%; si sono risparmiati prodotti chimici tra il 20% e il 40%; si sono risparmiati i solventi impiegati nei processi nella misura compresa tra il il 10% e il 70%; si sono ridotti i prodotti dispersi nell’ambiente in maniera significativa, in alcuni casi documentati nella misura del 10%; infine, ridotti sono risultati anche i consumi di acqua in misura compresa tra il 10% e il 100%.
Chemical leasing and Chemical management Services: sovrapposizioni e differenze
Un altro aspetto importante del ChL è la sua relazione rispetto ad altri approcci orientati ai servizi, in particolare il Chemical Management Services (CMS). Sono infatti possibili sovrapposizioni, ma vi sono anche differenze.
La United States Environmental Protection Agency (US EPA 2014) cosí si riferisce al CMS e al ChL, ben differenziandoli: «il CMS è un modello di business in cui un cliente acquista servizi chimici piuttosto che solo prodotti chimici. Questi servizi possono comprendere tutti gli aspetti del ciclo di vita di gestione chimica, tra cui: gli appalti, la consegna/distribuzione, l’inventario, l’utilizzo (tra cui la ricerca di un sostituto chimico), la raccolta, il monitoraggio/reporting, la formazione,
pos
il trattamento, lo smaltimento, la tecnologia dell’informazione, e anche i miglioramenti dell’efficienza di processo; ciascuna di queste fasi comporta poi i propri costi e rischi … Diverso è il ChL, in cui l’attenzione centrale è dedicata all’ottimizzazione del processo. Il CMS “potrebbe” comprendere il processo di miglioramento dell’efficienza, ma, nella maggior parte dei casi, il trasferimento di know-how tra fornitore e utente risulta limitato».
È quindi l’enfasi del miglioramento del processo e il trasferimento di knowhow fra fornitore e utente che è piú accentuato nei modelli di ChL, aggiungendo però anche lo spirito di collaborazione e di fiducia come sopra menzionato. Vi è da aggiungere, inoltre, che i modelli di ChL sono stati prevalentemente sviluppati in àmbito europeo mentre i modelli CMS sono adottati in àmbito USA.
Bilancio degli ultimi 10 anni di applicazione del Chemical leasing e prospettive future
Moser e Jakl (2014) nell’esaminare i vari modelli di ChL si sono posti le due seguenti domande:
1) possono modelli di ChL allineare gli obiettivi dei decisori politici e dell’industria per quanto riguarda la produzione e l’uso di sostanze chimiche?
2) quali sono i contributi del ChL ad altre iniziative globali volontarie nella gestione delle sostanze chimiche?
Alla prima questione si è ritenuto che il ChL dia risposta positiva rispetto a cinque obiettivi:
a) obiettivo sensibilizzazione: i rischi inerenti alla produzione e all’utilizzazione dei prodotti chimici sono noti;
b) obiettivo di gestione del rischio: i rischi delle sostanze chimiche prodotte e utilizzate vengono ridotti al minimo in ogni fase del ciclo di vita dei prodotti chimici;
c) obiettivo ottimizzazione del processo: la qualità delle buone pratiche adottata nell’applicazione di prodotti chimici è aumentata;
d) obiettivo comunicazione: la comunicazione per quanto riguarda i rischi delle sostanze chimiche è accresciuta lungo tutta la catena di approvvigionamento;
e) obiettivo proprietà: l’industria stessa è responsabile per la documentazione, valutazione e minimizzazione dei rischi derivanti dalle sostanze chimiche.
Si è analizzata e dimostrata la connessione stretta tra obiettivi del REACH e il ChL. Il ChL è quindi considerato un approccio pratico per attuare REACH.
In riferimento alla seconda delle questioni poste, lo studio ha analizzato i risultati documentati in letteratura sul possibile impatto del ChL nella realizzazione di altre iniziative globali attuate dall’industria su basi volontarie, e volte a tutelare l’ambiente dagli effetti negativi delle sostanze chimiche e dei rifiuti connessi. Si sono identificati tre settori specifici: • il primo esempio è preso dal campo del Cleaner Production, che è un’iniziativa dell’industria mirante a rafforzare i processi e i modelli di produzione nonché a ridurre al minimo la produzione di rifiuti; • il secondo esempio è concentrato sulla chimica sostenibile, che è un specifico settore dell’agenda per lo sviluppo sostenibile; • il terzo esempio è tratto dal campo della Responsabilità Sociale d’Impresa. I punti 2 e 3 sono stati oggetto di due recenti pubblicazioni (Moser, F, Jakl, T, Joas, R., e F. Dondi , 2014; Moser, F., Karavezyris, V., e Blum C., 2014). Un ultimo aspetto non trascurabile è costituito dai risvolti legali dei modelli di ChL ampiamente trattati in letteratura e passati in rassegna da F. Moser e T. Jakl (2014). È emerso che l’assicurazione di qualità attraverso un “Certified Chemical Leasing” sviluppato TÜV SÜD Service Management è lo strumento in grado di garantire che i requisiti di legge specifici vengano osservati, consentendo in tal modo a tutti i partner coinvolti di realizzare pienamente il vantaggi di questo nuovo modello di business (2008, Nagel and Schaff ). In conclusione, il ChL si configura coIlme un modello “etico” di business chimico, assai efficace, in grande sviluppo e in grado di rispondere alla raccomandazione del WSSD a sviluppare approcci corretti di gestione delle sostanze chimiche e dei rifiuti pericolosi in tutto il loro ciclo di vita. Il ChL contribuisce quindi a impostare e a raggiungere l’ambizioso obiettivo posto per il 2020 dal WSSD (2002) di utilizzare e produrre prodotti chimici in modi che non arrechino significativi effetti negativi sulla salute umana e sull’ambiente.
Francesco Dondi
Professore Ordinario di Chimica Analitica, Facoltà di Scienze, Università di Ferrara
Frank Moser
Dipartimento di Scienze Chimiche e Farmaceutiche, Università di Ferrara
Riferimenti bibliografici
• Beyer W (2008a), Chemical leasing in Austria—case studies: chemical leasing in the field of pain stripping. In: Jakl T, Schwager P (eds), Chemical leasing goes global. Springer Vienna, Vienna, pp 43–53.
• Joas R (2008), The Concept of Chemical Leasing. In Chemical Leasing Goes Global. in: Jakl T, Schwager P (eds), Chemical Leasing goes global. Springer Vienna, Vienna, pp 17-26.
• Moser, F., Jakl, T. (2014), Chemical leasinga review of implementation in the past decade, Environ Sci Pollut Res, DOI 10.1007/ s11356-014-3879-3.
• Moser, F, Jakl, T, Joas, R., and F. Dondi (2014), Chemical Leasing business models and corporate social responsibility, Environ Sci Pollut Res DOI 10.1007/s11356-0143126-y.
• Moser, F., Karavezyris, V., and Blum C. (2014), Chemical leasing in the context of sustainable chemistry, Environ Sci Pollut Res, DOI 10.1007/s11356-014-3926-0.
• Nagel U, Schaff P (2008), Third-party quality assurance and certification chemical leasing: optimisation by certification. In: Jakl T, Schwager P (eds), Chemical leasing goes global. Springer Vienna, Vienna, Vienna, pp 111-122.
• Ohl C, Moser F (2007), Chemical Leasing Business Models – A Contribution to the Effective Risk Management of Chemical Substances. Risk Anal 27(4): 999-1007.
• Ohl C, Moser F (2008), Chemical Leasing Business Models – an innovative approach to manage asymmetric information regarding the properties of chemical substances. In: Jakl T, Schwager P (eds), Chemical Leasing goes global. Springer Vienna, Vienna, pp 143-156.
• Perthen-Palmisano B, Jakl T (2005), Chemical leasing-cooperative business models for sustainable chemicals management – summary of research projects commissioned by the Austrian federal ministry of agriculture, forestry, environment and water management. Environ Sci Pollut Res 12:49–53.
• Schott R (2008), Cost-benefit analysis. In: Jakl T, Schwager P (eds), Chemical leasing goes global. Springer Vienna, Vienna, pp 163–175.
• Stoughton M, Votta T (2003), Implementing service-based chemical procurement: lessons and results. J Clean Prod 11:839–849.
• UNIDO (2011), Chemical leasing: a global success story. Innovative business approaches for sound and efficient chemicals management. Vienna: United Nations Industrial Development Organization.
• Cfr.: http://www.google.fr/ url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=2&cad=rja&uact=8&ved=0CDEQFjAB&url=http%3A%2F%2Fi nstitute.unido.org%2Fdocuments%2FM8S4_ EnvironmentalManagement%2FChemic al_Leasing.pdf&ei=qU9zU8Ibiq3RBd_Gg JAL&usg=AFQjCNGygPOv3xqerJFOoqm RLG-KhlR_9A&bvm=bv. 66699033,d.d2k. Accessed 14 May 2014.
• US EPA (2014), United States environmental protection agency. http://www.epa.gov/ osw/hazard/ wastemin/minimize/cms. htm. Accessed 14 October 2014
• WSSD (2002), World summit on sustainable development. Johannesburg plan of implementation. http://www.johannesburgsummit. org/html/documents/summit_docs/2309_ planfinal.htm. Accessed 17 May 2014.
Riccardo Milano, Responsabile delle Relazioni Culturali di Banca Popolare Etica
Bisogna riconoscerlo: esistono momenti nella storia di densità assoluta che incidono profondamente nella vita delle persone e che non permettono una disamina attenta e ponderata per la costruzione di un futuro e non basta conoscere la storia che altri hanno vissuto (“Ognuno – dice il poeta – sta solo sul cuor della terra”): bisogna trovare la forza e il coraggio di viverla personalmente cosí che, con la memoria da una parte e l’impegno dall’altra, si possa cominciare a intraprendere un nuovo cammino.
Si ricordi quel fatto importante accaduto nell’agosto del 1943, ossia in uno dei momenti piú difficili per l’Italia: l’inizio del percorso, fatto da alcuni “sognatori” con fede/fiducia, dignità e coraggio, che generò il Codice di Camaldoli da cui sono nate molte delle riflessioni della nostra Costituzione.
Chi soffre maggiormente è forse l’Europa, che, malgrado il suo passato, vuol ancora essere un primadonna, ma ahimè!, piuttosto vecchia, esattamente come gran parte della sua popolazione e, come molti anziani, manca di speranza, di visio
ne prospettica e di fiducia che pone solo nelle proprie ricchezze materiali accumulate e alle quali non vuole rinunciare.
Ma ciò non funziona e, quindi, non si progredisce. Per capirlo basta chiedere ai giovani, alle famiglie, ai disoccupati, a quel mondo che non ha piú una cultura atta al nuovo e visioni etico/filosofico/religiose cui attingere se non in modo (spesso) fondamentalista con chiusura all’altro. Tutto fa paura, piuttosto che tutto fa speranza.
In questa situazione il cammino dell’Economia (amministrazione della casa, della comunità), indispensabile per la vita dell’uomo, è travagliato e le teorie che da tempo si perseguono tenacemente, divenute mainstream, sono solo quelle che si riferiscono al capitale monetario piuttosto che a quello umano e sociale; all’arricchimento piuttosto che alla ricchezza; all’avere, piuttosto che all’essere. Insomma, l’economia dovrebbe avere quello che ha perso: un’anima, contrariamente a quanto sostenuto, specie dalla teoria marginalistica, che la considerava solo scienza.
Insomma, bisogna ricominciare a pensare bene per applicare appieno uno sviluppo che coinvolga tutto e tutti, dall’ambiente alle persone, al posto di un solo fare e un solo lavorare senza tenere conto di niente e di nessuno. Detto in altri termini una teoria economica che parta dai territori e dalla civitas, ossia dai luoghi del vivere.
«Belle parole e un bel programma – dirà qualcuno – ma è possibile? O è una delle tante belle e rispettabili Utopie che si sono sempre riproposte e che hanno fatto solo vedere la forte differenza tra idea e azione?». La risposta oscilla tra un sí e un no: sí, perché ogni pensiero abbisogna di una messa in pratica umana che non sempre c’è e/o viene modificata (la classica eterogenesi dei fini), spesso per comodità rispetto agli interessi e/o egoismi propri/di massa. No, perché di fatto già esiste un pensiero economico che non parla di un’economia di soli numeri o meglio, di scambio di equivalenti e di redistribuzione, ma anche di reciprocità, di fraternità, di solidarietà, di tuismo (al posto del non-tuismo, come vedremo), di fiducia/fides pubblica e privata, di capability, di relazioni … Tutto ciò è l’Economia Civile.
Conoscerla permetterà di capire perché questa teoria economica può essere una concreta possibilità di vero cambiamento e di risposta a una crisi che appare di difficile soluzione (ormai sono sette gli anni di durata – un tempo biblico). Tuttavia, il termine Economia Civile non è che uno dei tanti applicati dalla storia, specie negli ultimi secoli (1).
L’Economia civile
L’espressione “Economia civile” è entrata oramai, ma solo in modo marginale, nel dibattito quotidiano dell’economia, della cultura (2).
Il suo fondatore è Antonio Genovesi (3), colui che tenne la prima cattedra al mondo di Economia nella Napoli del 1700. Il testo fondamentale da lui utilizzatovi è Lezioni di commercio o sia di economia civile (4). Negli ultimi anni tale autore è stato poi rivitalizzato significativamente da Bruni, Zamagni e altri che hanno prodotto una serie di lavori sul tema.
Fin dai suoi inizi l’Economia di mercato (Economia civile) è fondata su tre principi distinti: lo Scambio di equivalenti di valore, la Redistribuzione, e la Reciprocità.
Con la Rivoluzione Industriale, e cioè con l’affermazione piena del sistema capitalistico, il principio di Reciprocità si perde e addirittura viene cancellato dal lessico economico per poi riemergere negli ultimi anni come “fiume carsico (5).
Con la modernità si afferma cosí l’idea secondo la quale un ordine sociale, per funzionare, avrebbe bisogno unicamente dei primi due principi.
Di qui il modello dicotomico Stato-mercato: al mercato si chiede l’efficienza, cioè di produrre il massimo della ricchezza, stante il vincolo delle risorse e il livello delle conoscenze tecnologiche; allo Stato si chiede di provvedere alla Redistribuzione di quella ricchezza e ciò allo scopo di garantire ai cittadini livelli socialmente accettabili di equità.
Oggi l’Economia civile vuole contribuire a riequilibrare una sproporzione vistosa: quella che si manifesta tra la realtà in continua evoluzione delle organizzazioni della società civile indicate come Terzo settore, Privato sociale, Non profit, Economia sociale o altro, e la riflessione sistematicoscientifica sulle stesse realtà, soprattutto quella in àmbito economico-politico.
Nel contesto passato, e in parte anche presente, l’attenzione che le viene dedicata è, spesso, puramente statistica, sociologicamente descrittiva, mentre il corpus centrale della teoria economica dedica a questa tematica, al piú, note di appendice oppure attenzioni casuali. Questa situazione, vista anche l’attuale profonda crisi, si sta modificando e la dicotomia tra mercato civile e mercato capitalistico sembra che possa, in un futuro non troppo remoto, essere superata e tutta l’economia potrà tornare a essere di aiuto alla Persona Umana e non viceversa (6).
La struttura dell’Economia civile
Prescindendo dalla sua gestazione che parte da lontano, e precisamente in pieno umanesimo civile (l’Italia centrale del ‘400), i suoi tratti tipici sono:
1. divisone del lavoro, ossia: ogni persona deve poter prendere parte al processo di creazione del valore. C’è una necessità di scambio: non solo del surplus prodotto, ma quello inteso come pratica strutturale;
2. necessità di relazioni interpersonali: queste costituiscono una logica conseguenza del fenomeno di scambio;
3. sviluppo, ovvero: lasciare alle future generazioni piú di quanto si è ereditato dalle precedenti e ciò implica una solidarietà intergenerazionale;
4. accumulazione, ossia investimenti ai fini dell’ampliamento produttivo con la conseguente pratica del risparmio. Lavorare è, quindi, un fine qualificante per la realizzazione umana della persona e non solamente un mezzo per il sostentamento. Citando il pensiero francescano del ‘300 si può dire che: «l’elemosina aiuta a sopravvivere, ma non a vivere. Perché vivere è produrre e l’elemosina non produce»;
5. libertà d’impresa, ossia: coloro che hanno le doti per poter fare gli imprenditori, devono poterlo fare senza permessi di autorità superiori, tipicamente lo Stato. Le doti dell’imprenditore saranno, dunque: i) propensione al rischio; ii) creatività e spirito d’innovazione; iii) ars combinatoria, ovvero, la capacità di organizzare e coordinare i collaboratori;
6. applicazione del principio di Sussidiarietà: le leggi devono essere stabilite da chi poi le dovrà rispettare. In sintesi, a ogni libertà corrisponde una responsabilità.
Di fatto, questo pensiero “antico” – anche se di fatto l’Economia Politica si rifà a Smith che è contemporaneo di Genovesi – è valido anche oggi ed è quello che si fonda sulla realtà del Bene comune e sulla felicità delle persone, intesa non solo in termini di solo avere, ma anche di relazione economica tra le persone (economia del dono).
La dinamica del bene comune (7) è quella che di fatto gestisce la società civile. È quella realtà che fa del mercato un luogo di relazioni ove si possano diffondere non solo produzioni e commerci, ma anche idee politiche improntate a un ottimismo di fondo intese a portare felicità nelle persone. Tale dinamica è alla base di una convivenza civile e di una visione buona e giusta delle cose che ci circondano, come la natura, il lavoro, la giovinezza e la vecchiaia nella vita, un’economia rispettosa della persona umana senza sfruttamenti di sorta e nel rispetto dei diritti delle persone, ecc. In tale contesto non può non emergere una visione politica che porti a coniugare rispetto dell’altro, lavoro, idee, visioni politiche, ecc.
L’Economia Civile considera il mercato, l’impresa, l’economico come luoghi anche di amicizia, reciprocità, gratuità, fraternità. Da qui la Mutua assistenza (servono anche amicizia e gratuità) e, poiché l’economico e il civile hanno gli stessi principi, essa si considera come scienza della felicità pubblica (8). Quindi, l’Economia civile si basa sulle relazioni interpersonali che sono cosa diversa dalle interazioni sociali (nelle prime s’incontrano persone con un’identità, mentre nelle seconde ci sono incontri anonimi, ossia luogo di contratti e procedure). La sua idea di uomo è quella di persona non semplicemente quella di individuo. La sua filosofia è quella di agente economico socievole in cui la razionalità non è solo strumentale, ma anche basata sulla espressività.
Se il fine del principio dello scambio di equivalenti è l’efficienza e il fine della redistribuzione è l’equità (che la redistribuzione venga operata dallo Stato con la tassazione progressiva o da altri soggetti con altri strumenti è irrilevante), a cosa mira il principio di reciprocità? La questione è complessa perché, mentre efficienza ed equità sono parole che sono entrate nel lessico comune oltre che nella teoria economicosociale, il principio di reciprocità, come detto, suona ancor strano, ritornando a circolare nella letteratura economica soltanto negli ultimi anni, sebbene nella storia del pensiero economico tale principio ha giocato un ruolo fondamentale, iniziando a scomparire dalla scena con con l’avvento della rivoluzione marginalista nella seconda metà dell’800.
Con l’affermazione del pensiero economico edificato sulle tesi dell’utilitarismo di Bentham, la parola reciprocità viene cancellata. Il personaggio cui si deve quest’operazione è l’inglese Philip Wicksteed, che propose l’espressione (9) “non tuismo”: il discorso economico finisce nel momento in cui l’agente economico riconosce nell’altro un tu, con la conseguenza che la relazione economica va fondata sul non tuismo.
Ma cosa vuol dire: “l’altro è un tu”? Vuol dire che l’altro è un soggetto al quale io riconosco un’identità e, quindi, la capacità di riconoscere in me un portatore di identità. Nel momento in cui questo avvenisse – sostenne Wicksteed – saremmo fuori dell’orizzonte economico: si entrerebbe nella sociologia o nell’antropologia.
Per dirla in termini un po’ brutali, business is business. In sintesi: per realizzare un profitto si deve dimenticare non solo la mia identità, ma anche la tua identità. Da qui all’aporia odierna del mainstream economico/ finanziario, della nostra qualità della vita e delle difficoltà politiche e sociali il passo è breve.
Ma non è tutto: la Reciprocità si estrinseca con la Solidarietà e la Fraternità (10). Esse, seguendo il pensiero di Zamagni, si possono definire cosí: la prima come «quel principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare uguali» (11). La seconda «viene individuata come quel principio che consente agli uguali di essere diversi», ossia una dimensione includente che deve essere anche recepita negli affari politici economici e sociali; economia come impegno civile perché la relazionalità è la stessa della società civile.
Quindi il mercato come luogo di civiltà e di pace: uno dei frutti del commercio «è portare le nazioni trafficanti alla pace» (12); valorizzazione dei corpi civili, forme di associazione orizzontali che valorizzano l’uguaglianza dei cittadini; gli interessi privati diventano pubbliche virtú solo nella vita civile; alla mano invisibile di Smith, Genovesi preferisce il tessuto visibile delle virtú civiche perché «quando in una nazione vacillano i fondamenti della fede etica, neppure quelli dell’economia e politica possono stare saldi» (13).
Questo mercato, sociale, è tutto ora da riscoprire per cominciare ad applicarlo sin dall’Economia Aziendale (14). Ma anche il mondo dell’istruzione e quello bancario sta lavorando a questa riscoperta teoria: non solo la Scuola di Economa Civile (SEC) (15), ma la stessa Banca Etica, con il suo nuovo percorso di Laboratorio di Economia (16). Forse è l’unica possibilità che oggi si ha per uscire a rivitalizzare l’economia e, vista anche la grave problematica ambientale, a riportare la lezione economica per il ben-essere di nazioni con vecchie e nuove economie.
Conclusione
La questione del perché questo modello economico, tutto italiano e che ha insegnato moltissimo al mondo economico è stato abbandonato è presto detto: l’Economia Civile, basandosi sull’alto valore etico della sua filosofia e prassi, abbisogna di persone mature che vogliano ben vivere, aldilà dei personali egoismi, anche se utili, in vista di un bene comune ampiamente condiviso nel senso già indicato dalle parole solidarietà e fraternità.
L’Economia Politica, specialmente quella neoclassica/marginalistica e liberista, si basa su di un utilitarismo personale ed egoistico spinto, di certo molto piú facile da mettere in pratica. E cosí è stato fatto, con tutte le conseguenze che abbiamo visto e vediamo durante questa crisi epocale e che ora non ci fanno piú dormire sonni tranquilli. Non conviene allora scommettere su di una nuova economia e relazionalità?
Riccardo Milano
Responsabile delle Relazioni Culturali di Banca Popolare Etica
Note
1) Si sono poi coniati i termini di Economia sociale, Sociale di Mercato, Solidale, di Comunità, di Comunione, ecc.
2) L’attuale teoria economica Europea è la tedesca Economia Sociale di Mercato, nata dalla Scuola di Friburgo di W. Euken durante la crisi della Repubblica di Weimar, e definita anche Ordoliberalismo, dal titolo della rivista Ordo fondata da Euken nel 1940. Essa, come dice N. Goldschmidt, «è un insieme di idee socio-politiche in favore di una società libera e socialmente giusta dove vengono fissate regole generali di politica economica. Si tratta di una concezione decisamente liberale, fondata sulla libertà individuale e sulla convinzione che mercati in buon ordine di funzionamento e la concorrenza conducano all’efficienza economica e, di conseguenza, allo sviluppo (o, nel caso della Germania del secondo dopoguerra, alla ricostruzione) dell’economia, come anche al progresso sociale». Citato in F. Felice, L’economia sociale di Mercato, Rubbettino, 2008, pp. 2021.
3) Quella di Antonio Genovesi è l’Economia civile della scuola napoletana. Esiste un’altra scuola, milanese, con Beccaria, Verri, Cattaneo. Altre riflessioni vengono dal Muratori con l’apporto delle Università emiliane. Antonio Genovesi fu abate, filosofo ed economista (Castiglione, Salerno 1713 – Napoli 1769).
4) Si veda la ristampa di A. Genovesi, Lezioni di Economia civile. Introduzione di L. Bruni e S. zamagni. Testo e nota critica di F. dal Degan. Edizioni V&P, Vita e Pensiero, Milano 2013.
5) Espressione usata con molta frequenza da Stefano zamagni e altri economisti. Ciò proprio per la necessità di diffusione di un nuovo paradigma economico, visto la crisi del pensiero economico dominante.
6) Ad oggi l’unico testo universitario che tratta questo tema dal punto di vista scientifico è: L. Becchetti, L. Bruni, S. zamagni: Microeconomia, Edizioni Il Mulino, Bologna 2010.
7) Al bene comune si contrappone il bene totale (derivante dall’Economia Politica di Adam Smith e proseguita col pensiero utilitaristico/liberista) per il quale non conta il bene di tutta la persona, ma la realizzazione di un contesto economico in cui inevitabilmente si darà spazio solo alla dimensione materiale, sebbene possa essere apportatrice di gravi disuguaglianze e di gravi menomazioni delle risorse naturali. Di fatto, mentre il bene totale ragiona per addizione dei singoli beni individuali, il bene comune ragiona per prodotto dei beni individuali. Si sa che in un’addizione, se alcuni addendi hanno valore 0 la somma non cambia (se c’è un ricco con 1 Mld e cento poveri con pochi soldi, la somma tiene sempre conto del Mld dell’unico ricco). Ma ragionando con la logica del prodotto, basta che ci sia un solo 0 e tanti altri fattori prodotto, il finale sarà 0! Il che vuol dire che se non si tiene conto delle persone in difficoltà, il cui benessere è prossimo a 0 non vale piú la logica del bene comune. In altri termini: il bene comune è il mio bene assieme al tuo e a quello degli altri.
8) Scriveva Genovesi: «Ma niente piú necessario ad una grande e pronta circolazione, e a rinvigorire ogni sorta di utile industria, quanto la fede pubblica» in Lezioni di Economia …, op. cit., X §1, pag 341.
9) P. Wicksteed, The Common Sense of Political Economy (a cura di L. Robbins), Macmillan, London 1933.
10) Anche queste parole sono state rimosse. Eppure, la fraternità appare già nella triade “liberté, égalité, fraternité”: in nome della fraternità oltre che della libertà e dell’uguaglianza (nel senso dell’equità), è stata combattuta la Rivoluzione francese. La fraternità, già presente nell’opera dell’illuminismo italiano e in Genovesi, assume anche un forte aspetto socio/economico, tuttora da riscoprire, visto anche il declino del Welfare.
11) Essa ha permesso l’affermarsi di una vera democrazia con partiti, sindacati, welfare, ecc.
12) Lezioni di Economia …, op. cit., I, XIX §VII, p. 201.
13) Lezioni di Economia …, op. cit., II, X §VI, pag 344.
14) Si legga: R. Ruffini, Da genovesi a Zappa. Appunti per un’analisi dei legami tra l’Economia Aziendale e l’Economia Civile, in Liuc Papers n. 238, Serie Economia Aziendale 34, febbraio 2011.
15) www.scuoladieconomiacivile.it
16) www.bancaetica.it/nuova-economia
Claudia Zarabara, Consulente e docente area Web Marketing, Comunicazione OnLine SEO – Social Media Marketing e Docente a contratto Università di Padova
La Rete, ormai, comincia ad avere la sua età. A livello puramente tecnologico il progenitore di Internet, Arpanet, nasce nel 1969 dopo anni di studi e sperimentazione. Arpanet, in quegli anni, collegava quattro nodi: «Università della California di Los Angeles, l’SRI di Stanford, l’Università della California di Santa Barbara e l’Università dello Utah con un’ampiezza di banda di 50 kbs» (1) e, in poco tempo, si allargò oltreoceano, coinvolgendo nuovi nodi.
Tuttavia, all’epoca, la si poteva considerare solo un mezzo di comunicazione: veloce, non immune da problemi (i virus si sono sviluppati contestualmente all’ampliamento di Arpanet), ma sempre un mezzo di comunicazione. Senza entrare nei dettagli della storia di Internet, credo sia importante soffermarsi su una data storica: il 1991.
È in quell’anno che un ricercatore del CERN di Ginevra (Tim Berners-Lee) definí il protocollo http, ossia la base per la navigazione ipertestuale.
Soffermiamoci su due aspetti:
1. Il fatto che l’http sia un’invenzione del CERN è fondamentale, poiché nel testo della Convenzione del CERN viene espressamente indicato (2) che «i risultati dei suoi lavori sperimentali e teorici vengono pubblicati o resi altrimenti generalmente accessibili». Proprio in quest’ottica, «il 30 aprile 1993 il CERN, decise di rendere pubblica la tecnologia alla base del World Wide Web in modo che fosse liberamente implementabile da chiunque» (3).
2. L’http, ha reso il Web user friendly, amichevole. Ha permesso a uno strumento che fino ad allora era appannaggio di pochi (profili tecnici) di diventare uno strumento diffuso e utilizzabile da chiunque. Dopo la diffusione del protocollo http, fece «seguito un immediato e ampio successo del World Wide Web in ragione delle funzionalità offerte, della sua efficienza e, non ultima, della sua facilità di utilizzo. Internet crebbe in modo esponenziale, in pochi anni riuscí a cambiare la società, trasformando il modo di lavorare e relazionarsi. Nel 1998 venne introdotto il concetto di eEconomy» (4).
Oggi la Rete è uno strumento imprescindibile, fa parte del vivere quotidiano di ciascuno di noi, a titolo sia personale sia professionale.
Secondo la recente indagine Istat (5) pubblicata a dicembre 2014:
– il 95% delle imprese italiane sono connesse a Internet in banda larga fissa o mobile;
– il 64% delle famiglie italiane dispone di un accesso a Internet e l’87,1% possiede un Pc.
La penetrazione della Rete nella popolazione mondiale continua a crescere (6): ed oggi, Internet è una Rete che è molto cambiata rispetto ai suoi albori. Oggi la Rete è fatta dalla persone …
Il WEB OGGI? WEB 2.0
«Il Web 2.0 è un’espressione utilizzata spesso per indicare uno stato dell’evoluzione del World Wide Web, rispetto a una condizione precedente. Si indica come Web 2.0 l’insieme di tutte quelle applicazioni online che permettono un elevato livello di interazione tra il sito web e l’utente come i blog, i forum, le chat, i wiki, le piattaforme di condivisione di media come Flickr, YouTube, Vimeo, i Social Network come Facebook, Myspace, Twitter, Google+, Linkedin, Foursquare, ecc., ottenute tipicamente attraverso opportune tecniche di programmazione Web e relative applicazioni Web afferenti al paradigma del Web dinamico in contrapposizione al cosiddetto Web statico o Web 1.0» (7).
Dunque il Web attuale è un’evoluzione del vecchio Web. Cambiano gli attori, le tecnologie, le dinamiche. Il Web 1.0 era una Rete fruibile solo in maniera passiva: attraverso un motore di ricerca potevamo interrogare la Rete e prendere le informazioni che altri (aventi competenze tecniche) avevano caricato in qualche sito. Oggi “la Rete siamo noi”. Il Web 2.0 ci ha dato una tecnologia che ci permette di creare e condividere contenuti senza aver bisogno di competenze tecnologiche. La Rete è fatta di Social Newtork, di blog, di tag (etichette), in generale di contenuti creati dagli utenti e condivisi con gli utenti. Il termine condivisione, di per sé, ha una connotazione positiva: “dividere con, dividere, spartire insieme con altri”. Ma come tutte le cose anche la condivisione ha un rovescio della medaglia: quanto e cosa è lecito condividere?
La tendenza dei ragazzi è quella di raccontare, raccontare fin troppo, senza domandarsi se davvero tutto sia raccontabile, senza riflettere sul fatto che in Rete ciò che si dice rimane. Per sempre, o quasi. Non a caso i selezionatori di personale dichiarano di guardare sempre gli spazi Social di un papabile candidato e di trovarsi spesso a stracciare un Curriculum Vitae per quanto emerge da un profilo Facebook o Twitter o altro. I Social hanno memoria e post sciocchi, pubblicati qualche anno prima, riemergono in contesti differenti e in tempi diversi.
Cosa sono i Social Network?
Gli albori dei Social, a livello teorico, sono da ritrovarsi in uno studio americano della fine degli anni Sessanta. Il sociologo Stanley Milgram (8) chiese a un gruppo di persone di fare avere un pacco a un estraneo del Massachusetts utilizzando solamente persone che si conoscevano l’una con l’altra. Dimostrò empiricamente “La teoria dei sei gradi di separazione” (9) (Frigyes Karinthy 1929) secondo la quale ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non piú di 5 intermediari.
I Social Network (che sono solo una tipologia di un insieme piú ampio di Social Site), sono siti che cercano di mettere in contatto le persone, di portare in luce relazioni che, altrimenti, nella vita reale, sarebbero nascoste.
Attraverso i Social Network le reti vengono enfatizzate, i contenuti vengono creati con estrema facilità e divulgati ancor piú rapidamente. Sembrerebbe un bell’esempio di democrazia, almeno potenzialmente, ma i numeri ci offrono una realtà diversa.
«Il principio 90-9-1 è la teoria secondo cui la percentuale dei soli fruitori (lurker) di una comunità virtuale è enormemente superiore a quella dei collaboratori attivi a quella stessa comunità» (10). In sintesi su 100 partecipanti a una comunità virtuale solo uno effettivamente crea contenuti (creatore), 9 partecipano e contribuiscono (contributori), mentre la maggior parte, 90, sono semplici fruitori (lurker).
La Rete oggi ha dinamiche diverse da quelle di vent’anni fa: cambia rapidamente, è legata alla geolocalizzazione (l’identificazione della posizione geografica di qualcuno o qualcosa nel mondo reale), è destrutturata. Basti solo pensare alle fonti di informazioni, un tempo certe e condivise, oggi diffuse e non sempre identificabili.
La Rete oggi è mobile, è diffusa, è sempre a portata di mano. Qualsiasi applicazione web-based ha una sua versione per smartphone, cosí come esistono applicazioni create ad hoc in versione mobile. “Whatsapp” in primis, che oggi vede un aumento di utilizzatori proprio tra gli adolescenti non solo per ragioni di costo e di utilizzo, ma per la percezione un minor controllo da parte degli adulti.
Secondo la Società Italiana di Pediatria (11), «tra i tredicenni imperversa Whatsapp, a usarlo sono 8 su 10. Conclusa la migrazione dal computer al telefonino: il 93% degli adolescenti si collega a Internet dallo smartphone. Sempre piú tempo speso a chattare nelle ore notturne».
IL WEB: UNO STRUMENTO PER CHIACCHIERARE, LAVORARE, CREARE, INVENTARSI …
Data questa diffusione di Internet, proviamo a focalizzare l’attenzione sugli utilizzi di questo strumento, in vari àmbiti. Il mondo Web 2.0 è entrato in maniera forte nelle aziende. Negli anni Ottanta la Xerox cercò di comprendere perché un gruppo di tecnici era capace di risolvere problemi di assistenza alle macchine Xerox molto piú rapidamente degli altri. La soluzione? I tecnici utilizzavano un forum creato appositamente, dove condividere “problemi quotidiani” e “soluzioni non convenzionali” e non codificate nella manualistica consegnata ai tecnici. Si cominciò allora a parlare di comunità di pratica (a essere condiviso era il “saper fare”) e di conoscenze tacite (conoscenze non codificate e legate al quotidiano di ciascun operatore). Oggi sono molte le aziende che utilizzano al loro interno delle Intranet basate su questo modello di condivisione e replica delle conoscenze, Intranet aziendali che tendono a creare rete abbinando una dinamica del tutto simile a Facebook. Le relazioni tra i dipendenti danno valore all’azienda e occorre valorizzarle, sostenerle e spingerle. Nella stessa ottica si sono sviluppati modelli di co-working che, non solo permettono il lavoro a distanza, ma tracciano lo sviluppo del progetto, la creazione del prodotto e la sua evoluzione, dando valore a interventi di figure e ruoli un tempo messi a margine di questi progetti.
La Rete è cambiata: la mail ha perso utilità rispetto ai sistemi di messaggistica interni ai vari ambienti Social. Negli USA l’utilizzo delle mail è tracollato negli under 55, e molti college non offrono piú il servizio di mail@nomedelcollege: rimandano ai profili Social degli allievi. In Italia la cosiddetta generazione Y (nativi digitali) ritiene la mail uno strumento obsoleto, soppiantato dai sistemi di messaggistica interni ai Social. Essere inseriti nei Social Network non è esente da rischi. La personal reputation è spesso sottovalutata dalle persone in Rete che si ritrovano a fare i conti con quello che Google dice di loro nel momento in cui, ad esempio, tentano di inserirsi nel mondo del lavoro.
Il selezionatore valuta il CV, analizza il profilo Linkedin del candidato (profilo – per cosí dire – formale) e, infine, digita il suo nome e cognome su Google. E lí comincia una nuova valutazione della persona. Non a caso qualche tempo fa Google ha riconosciuto il “diritto all’oblio”: «qualsiasi cittadino del Vecchio continente ha il diritto di richiedere la deindicizzazione di alcuni contenuti dai risultati proposti dai motori di ricerca» (12).
Sono molte le aziende che hanno abbinato al marketing tradizionale strumenti di marketing 2.0 basati sulla presenza strutturata del brand nei vari Social. L’obiettivo principale? Dialogare con i consumatori e, dove possibile, rispondere a nuove esigenze e richieste del mercato.
D’altronde dobbiamo ricordare che l’Italia è il Paese europeo che trascorre il maggior numero di tempo al giorno (due ore) sui Social Network (13). E se i consumatori sono lí, è lí che le aziende devono investire per dialogare con loro. C’è da domandarsi come spendiamo due ore al giorno del nostro tempo sui Social. In primis, chiacchierando e interagendo con gli altri. L’interazione è a largo spettro: è di tipo “uno a uno” e, sempre piú spesso “molti a molti”. Facebook pullula di “gruppi” di condivisione: gruppi di genitori, di scuola, di ragazzi, pagine di Comuni e Istituzioni ecc. L’intento? Dialogare. Forse l’esempio non ha rilevanza scientifica, ma un anno fa (maggio 2014) il Comune di residenza di chi scrive ha gestito l’emergenza alluvione attraverso Facebook. Anche questo è un segnale di un mondo che cambia.
Il Web è, naturalmente, anche svago e gioco. Community per gli amanti dei libri in cui dialogare sui libri e condividere la propria libreria virtuale (Anobii.com) ; giochi di ruolo online come Minecraft e Clash of Clan.
Solo giochi? Non proprio. Trattandosi di giochi di strategia l’apporto del giocatore non è da sottovalutare e l’utilizzo della chat online, spazio di condivisione con altri giocatori nel mondo, serve a concretizzare le strategie di gioco. Spesso il virtuale si incontra con il reale e si organizzano meeting tra (ad esempio) clan di Clash of Clan. La Rete è apprendimento, spesso basato sull’interazione con altri utenti. Il sito Fluentify (fluentify.com) offre la possibilità di attivare sessioni di conversazione online con tutor madrelingua che si trovano in varie parti del mondo. Slideshare è una community dove depositare e condividere le proprie slide. Tipicamente si parla di materiale didattico. Il fruitore, attraverso le parole chiave cerca e ottiene aggiornamenti sui temi di sua pertinenza. Chi pubblica ottiene in cambio leadership e riconoscimento e, conseguentemente, incarichi e lavori.
Questo della leadership online, legata al concetto di personal branding è una modalità di autopromozione molto diffusa in Rete soprattutto tra i piú giovani e capaci. Vincenzo Cosenza (www.vincos.com) è oggi una delle persone piú autorevoli in tema di Social Media e ha iniziato come Blogger. Il tempo e la qualità dei suoi contenuti lo hanno reso un influencer. La Rete è stata il suo unico canale di promozione.
BUSINESS E STRATEGIE DI SVILUPPO: DOVE STANNO GLI @DOLESCENTI?
Una recente (febbraio 2015) ricerca di IPSOS per Save The Children (14) su un campione di ragazze e ragazzi tra i 12 e i 17 anni, ci ha fornito questo scenario circa l’utilizzo degli strumenti web e mobile.
Utilizzo degli strumenti (principalmente via smartphone) sono: Whatsapp 59%; Facebook 75%; Instagram 36%; Twitter 29%; Spotify 11%.
Un’altra indagine sempre rivolta agli adolescenti (8.000 intervistati) segnala che «il 97 per cento degli intervistati ha uno smartphone, che ha cambiato le abitudini quotidiane dei ragazzi e soprattutto il loro approccio con la Rete: “Oltre la metà naviga prevalentemente attraverso questo strumento” (…) “Ma soprattutto, c’è da notare che mentre tra i nati nel 1996-1998 solo il 36 per cento ha ricevuto lo smartphone prima di finire le medie, tra i nati del 2002-2004 la percentuale sale al 95 per cento» (15).
Smartphone inseparabile e sempre acceso, ragazzi costantemente in modalità online. Un target importante per le aziende, specie per quelle maggiormente orientate al marketing digitale, aziende alle quali la Rete offre molte possibilità di marketing e di business:
– Gamification: ossia «l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi e delle tecniche di game design in contesti esterni ai giochi» (16). Questo meccanismo basato sul gioco e sulla sfida, è stato utilizzato recentemente da Foot Locker con l’obiettivo di avvicinare gli appassionati dello sport al mondo Foot Locker, rafforzando e diffondendo ulteriormente il brand. Anche il famoso ALS Ice Bucket Challenge (il secchio d’acqua ghiacciato per raccogliere fondi per la ricerca sulla SLA) si basava su un meccanismo di viralità e di sfida. Rimanendo in àmbito giochi (piú game vero e proprio che gamification) ricordiamo che il già citato Clash of Clan fattura ogni giorni oltre 750mila dollari al giorno. Come? Con gli acquisti online di componenti che servono ai giocatori per poter progredire nel gioco.
– Social Media Marketing: se i ragazzi trascorrono il tempo nei Social, è lí che le aziende si trovano per dialogare con i consumatori, per analizzare i loro gusti e desideri, per offrire loro prodotti ad hoc. I Social mettono a disposizione delle aziende delle scatole vuote che vanno riempite con contenuti di rilievo, capaci di far scattare il coinvolgimento del target e, quindi di generare rumore, chiacchiere e infine acquisti e fidelizzazione. Cambiano le dinamiche del marketing che ora si basano essenzialmente sul dialogo con i consumatori. KLM utilizza Twitter per dialogare con il consumatore. Si cerchi “Twitter Surprise – KLM” su YouTube.
– Advertising capillare: gli utenti dei Social (ad esempio Facebook) lasciano al Social Network moltissime informazioni (età, sesso, titolo di studio, scuola frequentata, locali frequentati attraverso la geolocalizzazione, interessi, ecc. ecc.), informazioni che poi vengono utilizzate per fare marketing. Un’azienda potrebbe indirizzare il suo messaggio a «ragazzi tra i 13 e 20 anni, che amano la musica dance e la fotografia, che abitano in tutto il Veneto, e nei dintorni di Roma». Si chiama “Facebook Advertising”.
– Advertising alternativo: i nuovi testimonial si chiamano influencer. Accanto a personaggi noti tradizionali come la “piú amata degli italiani” esistono nuovi personaggi digitali, famosi in Rete, legati al mondo dei blogger e dei YouTuber. Le aziende identificano l’influencer del proprio segmento di mercato e si rivolgono a lui per promuovere il proprio prodotto, in maniera piú o meno diretta.
– Applicazioni mobile: un mondo davvero ampio! L’applicazione può essere essa stessa un prodotto da vendere, oppure può arricchire il prodotto tradizionale. È il caso della app di Ferrero “Magic Kinder” che ha esteso l’esperienza delle sorprese Kinder al cellulare. O le piú diffuse applicazioni utilizzate dagli hotel per fornire informazioni al cliente durante la sua permanenza e poterlo fidelizzare poi.
– Prodotto personalizzato: è ancora attraverso la Rete che si sono concretizzati casi sempre piú numerosi di prodotto creato per il singolo consumatore. La Rete permette, ad esempio, di personalizzare le tue scarpe … http://www.converse.com/ landing-design-your-own (colori, suola, scritte …).
– Video Marketing: anche YouTube è, in fin dei conti, una scatola vuota. La strategia sta nei contenuti che pubblichiamo, alternativi, originali, unici. Spesso le aziende fanno marketing con video virali nei quali il prodotto nemmeno si vede. Ma il video viaggia in Rete, e il brand si rafforza. Si cerchi a titolo d’esempio “Il lavoro piú difficile del mondo” (spot di CardStore.com) su YouTube, o il Flash Mob di FastWeb fatto alla stazione Metro Moscova di Milano.
IL WEB: NON È UN MONDO ESENTE DA RISCHI
Questa panoramica sulla Rete non può che concludersi con un accenno ai rischi connessi a Internet, in primis la regolamentazione. C’è chi inneggia a Internet come strumento esemplare di democrazia e di espressione, chi, invece, ne contesta l’anarchia chiedendo un qualche tipo di regolamentazione. Il Social anonimo ask.fm ben si presta a focalizzare l’attenzione su questo aspetto e si lega a un altro problema quello della tutela dei minori. Il loro accesso alla Rete, spesso superando divieti che richiedono solo un’autocertificazione sulla propria età, pone problemi quotidiani sempre piú numerosi. D’altronde, spesso è il genitore a non saper mettere in guardia il figlio sull’uso di strumenti che egli stesso non sa padroneggiare.
La facilità di condivisione di contenuti ha dimostrato come Internet e privacy convivano con difficoltà. Sono soprattutto (ma non solo) i ragazzi a condividere ogni genere di materiale in barba a qualsiasi tutela della privacy. E quando un contenuto digitale viene immesso in Rete se ne perde il controllo. Basti pensare alla diffusione di video di minori su Whatsapp. Sullo stesso tema potremmo parlare dell’enorme mole di dati che la navigazione online genera e, conseguentemente sull’analisi e uso di questi dati fatti dai grandi player mondiali, Google in primis. I contenuti liquidi, per loro natura facilmente distribuibili, sollevano, inoltre, il problema dei diritti d’autore e della tutela dei materiali. I siti di file sharing ogni giorno scambiano e condividono canzoni, libri, immagini e ogni genere di contenuto che possa essere trasformato in bit.
Concludiamo con un accenno a un tema di enorme portata, la sicurezza. Cyber crimini, furti di identità, virus informatici, clonazione di carte di credito, attacchi hacker, phishing, ecc. ecc. Stiamo parlando di un network mondiale che ogni giorno carica in Rete un enorme quantitativo di dati e informazioni, un network che coinvolge oltre due miliardi e mezzo di utenti che, con Internet viaggia, lavora e si svaga.
Claudia Zarabara
Consulente e docente area Web Marketing, Comunicazione Online SEO – Social Media Marketing e Docente a contratto Università di Padova
Note
1) Fonte: Wikipedia.
2) Fonte: Convenzione dell’Organizzazione europea per la ricerca nucleare (CERN), Art.1.
3) Fonte: Wikipedia.
4) Fonte: Wikipedia.
5) Fonte: Istat.
6) Fonte: We Are Social.
7) Wikipedia.
8) Fonte “It’s a small world”, Teoria del mondo piccolo di Stanley Milgram.
9) Fonte: “La teoria dei sei gradi di separazione” di Frigyes Karinthy.
10) Fonte: Wikipedia “La regola dell’1%”.
11) Fonte: Sip “Generazione I LIKE” http://sip.it/per-i-genitori/generazione-i-like .
12) Fonte: Repubblica.it “Diritto all’oblio, Google non trova soluzioni: sulle ricerche europee pende il “rischio groviera”” di Simone Cosimi.
13) Fonte: We Are Social.
14) Fonte: IPSOS per Save the Children, I nativi digitali conoscono davvero il loro ambiente?.
15) Fonte: “Safer Internet Center italiano”.
16) Wikipedia.
Bibliografia di approfondimento
• Centro Giovani Online, Rapporto attività 2011 (Save the children).
• Social privacy. Come tutelarsi nell’era dei Social Network (Garante per la protezione dati personali).
• Generazione I Like (Società Italiana di Pediatria).
• We are social (Slideshare).
• How Social Networks Work: Overview of Network Properties (Pamela Rutledge – Slideshare).
• Il marketing nel Social Web (T. Weinberg Edizioni Tecniche Nuove).
• Internet e Web 2.0 (A. Lafluente e M. Righi Ed. Utet).
Benedetto Gui, Ordinario di Economia politica, Università di Padova
«Il non profit e chi se n’approfit»: cosí titolava sarcasticamente un articolo de La Repubblica a proposito del progetto di legge che, verso la fine del secolo scorso, avrebbe fatto nascere le Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus) (1).
Il recente saggio “Contro il non profit” di Giovanni Moro, che cade anch’esso in una fase di ripensamento della disciplina giuridica in materia, non è quindi certamente il primo testo critico nei confronti di un mondo troppo spesso considerato – con colpevole faciloneria – “buono” per definizione (2). Quello che colpisce, però, è che questa volta a levare la sua voce sia proprio uno di quel mondo lí, visto che in piú d’una di queste organizzazioni ha svolto ruoli di rilievo. «Il classico pentito con il dente avvelenato!», viene subito da pensare. E invece no. In quel mondo lui c’è dentro ancora fino al collo, al timone della Fondazione Cittadinanza Attiva. Ma allora, con chi ce l’ha?
Non profit
Il primo destinatario delle sue critiche, volutamente provocatorie, è quel nome, “non-profit”, che vorrebbe identificare un’entità in base a quello che non è, o che non fa (nel caso in questione ciò che le organizzazioni non-profit non possono fare è distribuire i loro profitti a chi le controlla o gestisce).
L’osservazione è fondata. Per inciso, neanche al personale tecnico o amministrativo della scuola piace l’appellativo “non-docenti”. Il guaio è che per identificare quel variegato insieme di organizzazioni non è facile trovare un’alternativa soddisfacente. Perché no “Terzo Settore” (terzo – si intende – rispetto a “Stato e Mercato”, in quanto costituito da organizzazioni né pubbliche né private con finalità di lucro)?
Sarebbe un po’ come dire – nota Giovanni Moro, a cui neanche questo nome va molto a genio – né verde né giallo.
Qual è allora per lui la giusta etichetta?
Nessuna, perché il variegato magma chiamato non-profit lo vorrebbe vedere scomposto in sette sottocategorie, corrispondenti alle diverse attività da esso svolte. Parafrasando il suo riferimento ai colori, si potrebbe dire che l’oggetto che cerchiamo di definire sarebbe identificato dal fatto di essere o rosso, o arancione, o viola, o di altri quattro colori. Ma allora, se dovessi rivedere secondo le indicazioni di Moro quell’espressione non-profit che compare nel titolo del corso di insegnamento di cui sono titolare, rischierei di superare il numero di caratteri consentiti.
Comparative Nonprofit Sector Project
Il secondo destinatario delle critiche di Giovanni Moro è il Comparative Nonprofit Sector Project, un progetto di ricerca avviato da Helmut Anheier e Lester Salamon presso la Johns Hopkins University all’inizio degli anni Novanta, sul quale ricadrebbe la responsabilità della “invenzione del non-profit” (3). La cosa fa leggermente sobbalzare sulla sedia chi ricorda il ricco dibattito scientifico sulle organizzazioni non-profit che si era svolto con molta vivacità e profondità già negli anni Ottanta (4), ma andiamo al punto: indicando un insieme di caratteristiche che determinino l’appartenenza o meno di un’organizzazione al “settore non-profit”, gli studiosi della Johns Hopkins, avrebbero, non solo quantificato, ma in qualche modo anche codificato nella sua definizione un aggregato di entità troppo diverse.
Cosa hanno in comune – si chiede l’autore a p. 43 – un’università della Terza età e una federazione sportiva, una fondazione bancaria e una confraternita, un ospedale e un’associazione combattentistica?
Oppure, stavolta gli esempi sono miei, cosa ha in comune un centro di assistenza fiscale, che compila le dichiarazioni dei redditi di moltitudini di lavoratori e pensionati, con un’associazione di advocacy, che si studia di far pesare di piú la voce dei cittadini nelle scelte politiche, come quella diretta da Giovanni Moro?
Non sono tutti uguali
Mettendo insieme realtà cosí diverse – prosegue l’autore – si rischia di provocare un “effetto alone”: se un pezzo di questo agglomerato gode di grande considerazione perché altamente meritorio, altri pezzi che non hanno le stesse credenziali vengono comunque illuminati di quella luce positiva, e magari sono proprio loro – perché piú consolidati e organizzati – a presentarsi all’opinione pubblica e al mondo politico come esponenti di punta dell’intero settore.
In effetti anch’io, dopo essermi appassionato al mondo non-profit attraverso alcune cooperative sociali impegnate nell’inserimento lavorativo di soggetti deboli – iniziative allora del tutto innovative, avviate con grande abnegazione da imprenditori sociali d’assalto – restai piuttosto sorpreso vedendo che la rappresentanza politica di questo mondo era di fatto in mano ad associazioni come Arci e Acli, degne e utili, ma … altra cosa.
Posso anche aggiungere, a conferma del disagio di Giovanni Moro di fronte a certe facili generalizzazioni, di essere anch’io infastidito da certe affermazioni perentorie riferite sbrigativamente all’intero universo non-profit, senza comprendere quanta diversità esso contenga.
Penso abbiate sentito dire anche voi: «lo specifico sovrappiú del non-profit è il volontariato». E quelle organizzazioni che hanno solo lavoro retribuito, come molte cooperative sociali? Ma, poi, siamo sicuri che è piú meritevole fare due ore di lavoro gratuito alla settimana piuttosto che rinunciare a una carriera alternativa per svolgere a tempo pieno certe attività di servizio che in genere sono anche poco retribuite?
Un’altra frequente affermazione è: «le non-profit sono benemerite perché si occupano degli ultimi». In realtà alcune di esse servono una clientela decisamente benestante (pensiamo a certe scuole o cliniche private), cosa peraltro non riprovevole e in certi casi svolta in modo eccellente.
Ancora, si sente dire: «le non-profit si distinguono per il fatto di creare capitale sociale, o di fornire beni relazionali, …». La cosa è vera per molte di esse, ma ce ne sono altre che fanno cose – egregie – che non creano occasioni di incontro tra le persone, come mettere a disposizione del pubblico materiale librario o informativo via Internet. Tuttavia, una cosa è ricordare la grande eterogeneità della galassia che gli studiosi della Johns Hopkins si accinsero a misurare in modo sistematico, altra cosa è concludere che i confini che la definiscono sono dannosi e fuorvianti.
Economicismo
Un’altra delle critiche di Giovanni Moro verso il lavoro di quegli studiosi è che peccherebbe di economicismo: il fatto che si punti a calcolare l’apporto che le organizzazioni in questione danno al Prodotto Interno Lordo (PIL) porterebbe a ignorare tutti quegli effetti della loro attività che non rientrano nelle categorie di merci o di servizi, e che quindi non possono confluire nel valore aggiunto (ossia il contributo al PIL) del settore non-profit.
Perdonatemi, ma qui scatta la mia difesa d’ufficio del PIL (dovere professionale di ogni economista!), e quindi – a seguire – anche del lavoro di Anheier, Salamon e compagnia.
Il PIL è una buona misura del volume di attività produttiva svolta in un certo territorio; ha alcuni difetti, ma nel complesso svolge onorevolmente la funzione per cui è stato pensato. Le storture nascono quando gli si vuol far dire qualcosa che non può dire: per esempio, se in quel territorio ci sia maggiore o minore benessere (un concetto marcatamente multidimensionale e fortemente soggettivo), oppure se si stia facendo buon uso delle risorse umane o naturali. Qualcosa di simile si può dire per l’azione del contributo economico del settore non-profit realizzata dal Comparative Nonprofit Sector Project.
In passato le attività svolte dai privati senza finalità di lucro erano viste come qualcosa di extra-economico, perché rispondente a logiche caritative o di beneficienza. La “scoperta” di quegli anni fu che queste attività hanno una dimensione economica importante, sia come impiego di risorse economiche (oltre il 7% dell’occupazione non agricola negli USA), sia come valore della produzione.
Parallelamente, i lavori di studiosi come Burton Weisbrod e Henry Hansmann sottolineavano il fatto che l’apporto di queste organizzazioni non si limita alla redistribuzione (era questa la vecchia visione del mondo non-profit come raccoglitore di donazioni filantropiche da destinare alle necessità degli indigenti), ma che esse competono con agenzie pubbliche e imprese private con finalità di lucro nel produrre e fornire soprattutto servizi, e nel far questo presentano alcuni precipui punti di forza che possono consentire una maggiore efficienza (ho detto proprio efficienza, criterio di performance tipico dell’economia) (5).
La quantificazione del loro contributo al PIL – non solo in Nord America, ma anche in Europa e in Asia orientale – serviva a dare sostanza a questa nuova visione del settore. Tuttavia, allo stesso modo in cui i dati relativi al PIL danno della situazione di una comunità nazionale una prospettiva parziale, e devono quindi essere integrati da altre informazioni per ottenere valutazioni piú corrette o piú complete, cosí l’aver calcolato il contributo delle organizzazioni non-profit al PIL è in sé un utile accrescimento informativo, ma non è certo l’unico criterio di valutazione.
Il pericolo che quantificare l’apporto economico del settore non-profit possa sfociare in una rappresentazione distorta della realtà nasce solo nel momento in cui, ad esempio, si voglia concludere che un certo insieme di organizzazioni (per esempio i già citati centri di assistenza fiscale) è piú importante e meritevole di un altro (per esempio le organizzazioni di advocacy) solo perché genera un valore aggiunto maggiore. Ma qui la responsabilità è di chi si serve indebitamente di quei concetti o di quelle quantificazioni, non di chi le ha sviluppate. Semplificando un po’ potremmo dire: non sarà mica colpa dei produttori di chiodi se qualche scriteriato li usa per strisciare le automobili altrui!
Competenza e intenzioni genuine
Completate le mie brave difese di parte, vengo al messaggio centrale del libro, che è una quanto mai opportuna messa in guardia nel momento in cui il Governo Renzi si accinge a riformare la legislazione del Terzo Settore; senza la consapevolezza che ogni beneficio fiscale attira irresistibilmente opportunisti e approfittatori verso le organizzazioni beneficiarie, e quindi senza adeguati organismi di controllo (che siano, per inciso, ben piú solidi della esile Agenzia per il Terzo Settore, inopinatamente soppressa a pochi anni dalla sua creazione), ma anche senza la continua sorveglianza da parte di un’opinione pubblica attenta e avvertita; senza la capacità di distinguere le varie componenti della galassia non-profit, diverse (anzi diversissime) per attività svolta e anche per dimensione; senza una chiara convinzione che la responsabilità di garantire a tutti un soddisfacente accesso ai servizi di welfare deve restare nelle mani delle istituzioni pubbliche, e che è in questo quadro che può meglio esplicarsi il contributo delle organizzazioni private, con o senza fine di lucro (scusatemi se a questo grosso tema faccio solo un accenno cosí veloce); senza tutto questo, l’affidarsi semplicisticamente al presunto merito di dichiararsi senza fine di lucro, gratificando di sussidi o di benefici fiscali e normativi tutte le organizzazioni che possono fregiarsene, rischia di fare piú male che bene alle finanze pubbliche, ai potenziali beneficiari e anche a chi opera in questo campo con competenza e intenzioni genuine, per dare risposta – dal basso – ai problemi sociali che scottano (6).
A nome di tutti costoro, e anche a titolo personale, mi sia concesso un commento finale sull’autore del libro: magari tutti quelli che si schierano “Contro il non-profit” la pensassero cosí!
Benedetto Gui
Ordinario di Economia politica, Università di Padova
Note
1) L’articolo è del 13 febbraio 1996, autore Giuliano Tabet.
2) G. Moro, Contro il non profit. Ovvero come una teoria riduttiva produce informazioni confuse, inganna l’opinione pubblica e favorisce comportamenti discutibili a danno di quelli da premiare, Bari, Laterza, 2014.
3) Le principali pubblicazioni del progetto negli anni Novanta includono: L. M. Salamon, H. K. Anheier, The Emerging Nonprofit Sector: An Overview, Manchester University Press, 1996; L. M. Salamon, H. K. Anheier (eds.), Defining the Nonprofit Sector: A Cross-National Analysis, Manchester University Press, 1997; L. M. Salamon, H. K. Anheier, R. List, S. Toepler, S. W. Sokolowski, Global Civil Society: Dimensions of the Nonprofit Sector, Vol. 1, Baltimore (MD), Johns Hopkins University Institute for Policy, 1999. Sul caso italiano si veda: G. Barbetta, Il settore nonprofit italiano, Il Mulino, Bologna 2000.
4) Si veda il mio articolo di rassegna: B. Gui, Le organizzazioni produttive private senza fine di lucro. Un inquadramento concettuale, Economia Pubblica, n. 4/5, 1987, pp. 183-192.
5) Si vedano ad esempio: B. A. Weisbrod, The Nonprofit Economy, Cambridge (Mass.) Harvard University Press, 1986; H. Hansmann, The Role of Non-Profit Enterprise, Yale Law Journal , 89, pp. 835-898.
6) Sul recente dibattito di policy riguardante le imprese sociali e senza fine di lucro si veda C. Borzaga (a cura di), La cooperazione italiana negli anni della crisi. 2o Rapporto Euricse, Trento: European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises, 2014.
Alberto Lanzavecchia, Università degli studi di Padova
Il reperimento di risorse (tipicamente scarse), la produzione, gli scambi sul mercato – l’attività economica – hanno inevitabilmente conseguenze sulla società. Queste attività, infatti, trasferiscono l’utilità di un bene dal suo titolare iniziale a un’altro fruitore, presente o futuro. Il capitale, inoltre, consente l’accumulazione dell’utilità trasferita con gli scambi.
Basti pensare non solo all’estrazione di materie prime o alle emissioni di una lavorazione (che trasformano l’ambiente), ma anche al prezzo dei beni e servizi scambiati (che, per dirla alla Fra’ Pietro di Giovanni Olivi, incorpora il lavoro, il rischio e la perizia necessaria per ottenere la disponibilità delle cose o dei servizi): l’attività economica sposta pesi tra i due piatti della bilancia della giustizia sociale – l’uno della comunità, l’altro del singolo attore. E «cosí ogni decisione economica ha conseguenze di carattere morale» (Benedetto XVI, 2009, 3:37, p. 58).
Investimenti e bene comune: un legame antico quanto l’uomo
Il ruolo e la gestione degli affari in una società sono influenzati allora da diversi fattori non economici, non tecnici (1), bensí legati alla tradizione, all’etica e al livello di sviluppo economico-sociale. L’ordine adottato non è casuale: il tempo li trasforma; il precedente è incorporato nel successivo. Sopravvive cosí fino ai giorni nostri, in una qualche misura, l’etica dell’uomo che agisce negli affari dettata da dogmi e precetti religiosi.
L’Islam, a riguardo, contiene precetti sia generali che particolari. La condotta degli affari e il funzionamento dei mercati sono subordinati a priorità etiche (2). L’etica islamica non solo definisce il perimetro entro cui condurre le attività lecite (ad esempio: «Dio ha permesso il commercio, ma proibisce l’usura», Corano 2:275), ma anche la misura per giudicare un’azione o la condotta dell’uomo: il valore di una qualsiasi attività economica dipende dal suo contributo al benessere generale della società, dal suo servizio all’altrui interesse (3). In tal senso, ci si riferisce (4), tra gli altri, ai seguenti versi: – «Il migliore tra la gente è colui che fa bene al prossimo» (5);
«Il piú nobile tra voi agli occhi di Dio è il migliore tra voi in condotta» (6). La prima citazione richiama il principio del dovere di agire per il bene altrui e l’attività economica è uno strumento idoneo a perseguire il bene comune: «Dio benedirà la tua ricchezza se ti impegni nel commercio anche senza trarne profitto» (7). Inoltre, il lavoro nobilita l’uomo: «alcuni peccati possono essere aboliti solo lavorando sodo per trarne utili» (8). Il profitto, infatti, è un risultato dell’azione economica dell’uomo, ma, come già detto, non è il fine. Le azioni dell’uomo sono valutate nelle intenzioni, non nei risultati.
La seconda citazione richiama il principio per la conduzione degli affari. Le attività economiche devono essere conformate da giustizia, trasparenza, equità, senza sfruttare la propria posizione di forza o l’ignoranza della controparte:
– «non prelevare dalle persone le cose che sono loro dovute» (Corano, 11:85);
– «negozia con giustizia, e non sarai trattato con ingiustizia» (Corano, 2:279).
È appena il caso di far osservare come questi princípi di condotta si estendano alla determinazione dei prezzi negli scambi commerciali (di beni, servizi e anche lavoro) e, piú in generale, alla determinazione del profitto massimo (9).
La religione ebraica, immutata da oltre 3.500 anni, contiene alcuni riferimenti ben precisi sulle attività economiche non consentite (10): produrre o vendere cibo che non rispetta le regole alimentari stabilite nella Torah e codificate nello Shulchan Aruk (c.d. cibo Kosher); fare affari nel giorno del riposo, anche se la controparte non è ebraica; intraprendere attività che possano aiutare altri a violare codici etici e religiosi; essere proprietario di quote di società che distruggono alberi, inquinano l’ambiente, praticano l’usura, producono o vendono armi, o svolgono pratiche ingannevoli.
La religione cristiana esorta (11) l’attività dell’uomo non finalizzata al suo arricchimento materiale. Gli uomini devono preoccuparsi prima della loro anima: guadagnare il mondo intero non è lo scopo della loro vita (Marco, 8:36). La Bibbia contiene numerosi riferimenti economici piú puntuali: Dio ha invitato l’uomo a lavorare la Terra (Genesi, 2:5-6) e a custodire il creato (Genesi 2:15), rispettando il riposo del sabato (Ebrei, 4:9-10; Marco 2:27); stigmatizza gli imbrogli, l’usura (cosa ben diversa dal mero prestito a interesse), gli sfruttamenti, le vistose ingiustizie, specie nei confronti dei piú poveri (cfr. Isaia 58:3-11; Geremia 7:4-7; Osea 4:1-2; Amos 2:6-7; Michea 2:1-2).
In particolare, il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica (DSC) racchiude i princípi di riflessione, i criteri di giudizio e le direttive di azione da cui partire affinché le persone si rendano capaci di interpretare la realtà e di promuovere il “bene comune” (12), principio che deriva dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone. A questo principio, ogni aspetto della vita sociale deve riferirsi per trovare pienezza di senso; nessun cattolico è esentato dal collaborare, a seconda delle proprie capacità, al suo raggiungimento e al suo sviluppo. Il lavoro è un mezzo per questo scopo, perché esso «suscita quelle energie sociali e comunitarie che alimentano il bene comune» (13).
Per inciso, infine, da diversi secoli le chiese Metodiste e i Quaccheri hanno introdotto negli Stati Uniti d’America dei princípi guida per l’attività economica, volti a evitare l’uccisione e la schiavitú, anche psicologica (si pensi al gioco d’azzardo, al tabacco e all’alcool), degli uomini (14). Da quanto sopra precede, appare evidente come da sempre esista un legame tra uomo, Lavoro e Bene Comune; tra etica, attività economica ed effetti sull’uomo e la sua comunità, ossia, ordinando piú correttamente il ternario, tra Deus, Homo e Natura. Dobbiamo quindi sviluppare il nostro discorso ragionando se la finanza, in quanto parte di un sistema economico, sia funzionale o meno al raggiungimento del bene comune (15).
Finanza e bene comune
L’Enciclopedia Treccani definisce “finanza” quel «settore della scienza economica che studia le decisioni di provvista e di impiego di fondi per il raggiungimento dei propri scopi e obiettivi da parte di istituzioni, imprese e famiglie». Effettivamente l’etimologia del termine, dal latino finantia, richiama il finire (dal latino fines), portare a termine, concludere. La finanza fornisce quindi gli strumenti per giungere a una mèta, ma è l’uomo che deve stabilire quali obiettivi vuole raggiungere. In tal senso, la finanza non ha un’etica, di cui invece è intrinsecamente permeato l’agire umano. Essa non è bene né male rispetto a un giudizio morale. La finanza assembla le regole della matematica e del diritto, in modo funzionale al raggiungimento di uno scopo.
Si pensi al semplice contratto di deposito di denaro in un conto corrente, regolato dal diritto privato (e la normativa secondaria) e dalla matematica per il calcolo dei costi e dei ricavi per ciascuna delle due controparti. Questo strumento finanziario soddisfa sia i bisogni del possessore del capitale, il quale con il deposito lo sottrae ad altri impieghi o consumi, sia il bisogno della banca, che con quel denaro può procedere con la propria attività.
Che uso ne viene fatto di quel denaro? Piú precisamente, quali effetti produce sulla comunità, sulla costruzione del bene comune, il denaro raccolto e investito tramite la finanza?
«Si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell’uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per sé stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale» (16).
Gli operatori economici che scambiano sui mercati beni, servizi, lavoro, capitali per il bene comune, devono, per regola morale cui liberamente aderiscono, accertarsi dell’impatto prodotto dalla loro attività economica.
Tuttavia, gli scambi sui mercati finanziari sono impersonali: si basano su un rapporto di fiducia (17) ex ante e nella verifica dell’adempimento ex post. Tornando all’esempio del deposito, se effettuato presso una grande banca, pur ammesso che questa assicuri preventivamente il rispetto di vincoli etici nell’uso che ne farà del denaro (ad esempio, non finanziando l’industria degli armamenti, di cui oltre), è improbabile che successivamente il risparmiatore (o chi per lui) abbia la possibilità di verificarne l’effettivo utilizzo, controllando tra diversi miliardi di euro impiegati dalla banca senza soluzione di continuità!
A tale esigenza (l’uso del denaro per il bene comune) rispondono invece gli investimenti diretti nelle attività dell’economia reale: associazioni, enti, aziende, imprese che, con la propria attività perseguono la costruzione di beni morali, sociali e ambientali (la c.d. economia civile).
Tuttavia, talvolta l’investimento diretto in dette iniziative dell’economia reale potrebbe risultare impossibile (18) o non opportuno (19). A questo bisogno, il sistema finanziario ha risposto sviluppando prodotti che raccolgono il capitale da piú soggetti e lo gestiscono, per loro conto, investendo in tali iniziative nel mondo. Il presupposto alla base di questo scambio è ancora la fiducia che l’investitore ripone nel gestore del proprio capitale, qui persino rafforzata: non è sufficiente un impegno sui mezzi (p. es.: comprare e vendere titoli di società), ma anche sullo scopo (titoli di società la cui attività persegua il bene comune).
Tali prodotti finanziari sono denominati “fondi etici” o, piú in generale, di investimento socialmente responsabile (SRI, acronimo dei termini inglesi Socially Responsible Investing).
I fondi SRI: strumenti finanziari “dal movente etico”?
I fondi SRI sono gestiti con «una serie di approcci che includono obiettivi sociali o etici o vincoli oltre che ai piú convenzionali criteri finanziari sulle decisioni di acquisto, detenzione e vendita di un particolare investimento» (20).
In effetti, differiscono dai fondi di investimento “convenzionali” solo sotto il profilo dei vincoli e degli obiettivi perseguiti – il bene comune. In tale contesto, i fondi SRI sono gestiti secondo tre strategie di base (21):
• selezione sulla base di criteri. Il gestore può escludere dall’universo dei titoli oggetto di investimento, quelli emessi da enti che svolgono attività contrarie ad imperativi etici o che non rispettino standard di comportamento o requisiti minimi definiti da enti terzi. Nel primo caso, ad esempio, possono essere escluse le società che conducono attività che minacciano la vita umana, la sua integrità fisica, psichica e morale – e quindi l’industria degli armamenti, alcool, tabacco, scommesse, pornografia, ecc. Nel secondo caso, ad esempio, si pensi al rispetto degli standard sulla responsabilità sociale (SA8000, ISO 26000, Fairtrade Labeling Organization, ecc.) o ambientale (ISO14001, FSC, Rainforest Alliance, ecc.). Il gestore, invero, può anche applicare criteri di inclusione, selezionando, ad esempio, i migliori emittenti, rispetto ad alcuni parametri, all’interno del proprio settore, o, infine, criteri misti (esclusione e inclusione);
• investimento attivo. Un fondo di investimento, in quanto titolare di diritti di proprietà della società, può esercitare pressioni sull’azienda partecipata affinché ne migliori la gestione sotto i profili, ad esempio, della sostenibilità dei risultati nel lungo periodo, del rispetto dell’ambiente o della dignità dell’uomo. Tali pressioni possono essere costituite dalla minaccia di rimozione degli amministratori, la vendita in blocco delle azioni sul mercato (che ne deprimerebbe il prezzo), la promozione dell’azione di responsabilità contro amministratori e sindaci infedeli allo statuto dell’ente (che sancisce lo scopo dell’azienda). In tal senso, l’obiettivo non è assicurare all’investitore che il suo denaro non finanzia attività contrarie ai propri desideri, bensí un piú elevato livello: “mettere il capitale al lavoro” per il bene comune. Da qui, si giunge all’ultima strategia;
• investimento nella comunità o impact investing. È una strategia di gestione attiva ancora piú pronunciata: il fondo SRI investe in progetti, aziende, iniziative individuate e selezionate in quanto la loro attività economica è idonea (quantomeno nelle intenzioni) a produrre un impatto diretto e positivo in una comunità o in alcuni gruppi di persone, o nell’ambiente – le tre dimensioni del bene comune. Si pensi, ad esempio, al microcredito, alle obbligazioni emesse da enti sovranazionali per finanziare progetti di vaccinazione o di educazione, di inclusione sociale, di promozione sociale e morale, ecc.
Trascurando ora altre questioni sopra sottese, ci concentriamo invece su alcune sollevate da Schwartz (22): a) se le tre sopraccitate strategie siano effettivamente basate su un movente etico; b) qualora siano “etiche”, in che misura lo è anche la loro applicazione e, infine: c) se i fondi etici siano un mezzo idoneo per perseguire il bene comune.
Un principio etico, religioso e laico, è il neminem laedere, non nuocere né nel fisico né nella psiche. Applicando tale principio non sarebbero ammesse attività o prodotti che compromettano il benessere della persona (finanche la morte). L’esempio tipico è il tabacco, i cui effetti nocivi sulla salute dell’uomo sono accertati. La libertà dell’uomo, che con la sua volontà sceglie consapevolmente di fumare, assumendosi il rischio conseguente, è a fondamento dell’argomentazione che ciò non è in violazione di alcun principio etico (23). Anche le automobili, ogni giorno, procurano morti in incidenti stradali: chiunque salga in auto sa che, con una certa probabilità, potrebbe essere coinvolto in un incidente mortale. Se seguissimo unicamente il principio del prevenire una morte probabile, allora dovremmo escludere dall’attività economica non solo queste industrie, ma anche quella dello sci o degli sport estremi, dell’agricoltura da terre altamente inquinate, ecc. Ebbene, il principio etico non risiede in un qualche limite alla probabilità che si verifichi l’evento dannoso alla vita o alla salute dell’uomo. A ben vedere, invece, la nicotina crea dipendenza. Come anche l’alcool o il gioco d’azzardo, ma non le auto o lo sci. Con il passare del tempo, la scelta dell’uomo non è piú frutto della determinazione della propria volontà, ma dall’incapacità di resistere a uno stimolo fisico e mentale (24). È in questo aspetto che tali prodotti violano l’integrità umana (e quindi non sono etici).
Un caso apparentemente meno problematico è l’industria degli armamenti. Le armi, per loro natura, sono strumenti atti a offendere il corpo di una persona e pertanto non sono compatibili con i principali approcci etici. Eppure persino la Santa Sede è difesa da un corpo armato – la Guardia svizzera pontificia. Le guerre di religione mietono ancora oggi vite umane. Scuole, ospedali, luoghi pubblici, confini nazionali sono presidiati da personale pubblico o privato armato. Le armi, come la finanza, sono mezzi inermi senza la mano dell’uomo. Se poc’anzi abbiamo sollevato la finanza dalle responsabilità sulle conseguenze che il suo uso ha avuto sulla vita degli uomini (provocandone la morte, la povertà, il disagio sociale per chissà quante persone!), per quale diverso principio un coltello o un’arma automatica dovrebbero essere un male in sé? E se fossero il male, quale Stato non finanzia, in una qualche misura, l’industria o l’attività degli armamenti? Senza l’industria degli armamenti, quante tecnologie (es. internet) e materiali, utili al bene comune, oggi non sarebbero disponibili?
Da qui è agevole passare al secondo punto di discussione, se cioè un principio etico sia inderogabile o se sia soggetto ad una qualche misura di tolleranza. Uno Stato che finanzia in una qualche misura l’industria degli armamenti o ottiene un qualche gettito fiscale dal gioco d’azzardo (che crea dipendenza), o una fonderia che produce anche le canne dei fucili, o una cartiera che produce la carta che avvolge le sigarette, è complice (25) di una violazione etica, e quindi da escludere dagli investimenti responsabili? Abbiamo già sostenuto che l’etica non si basa sulle probabilità di un evento negativo; analogamente il giudizio morale non dipende dalla percentuale di denaro destinata all’attività non consentita. Tuttavia, piú pragmaticamente, si può affermare che anche i piú elevati fini comportano un costo da pagare: se i contributi al bene comune delle attività “buone e giuste” sono maggiori dei costi morali conseguenti all’esercizio di attività condannabili condotte dalla medesima azienda, da una prospettiva laica, essa sarebbe meritevole di investimento.
A questo punto dei nostri ragionamenti appare chiaro che i fondi SRI gestiti con la strategia di esclusione/inclusione non sono idonei, o al piú poco efficaci, a costruire il bene comune, sia perché si basano su meccanismi automatici, spesso controversi nel fondamento etico, sia per un motivo piú nascosto, che è opportuno qui far rilevare.
È meno frequente che gli emettenti (etici e non) ricorrano al mercato per raccogliere nuovo capitale necessario per finanziare le proprie attività e progetti di sviluppo (26). D’altra parte, la dimensione delle richieste di nuovo capitale è una frazione minima rispetto al valore dei titoli già emessi e in circolazione. Pertanto, sui mercati finanziari si scambiano principalmente titoli già emessi, “usati” – non “nuovi”. Come risultato, dell’enorme controvalore di titoli scambiati tutti i giorni tra investitori sui mercati, nemmeno un centesimo giunge nelle casse dell’emittente: solo nel giorno della prima emissione del titolo l’emittente ne incassa il controvalore, ma da quel momento in poi il titolo passerà di mano, pagandone il prezzo, da investitore a investitore, senza interagire in alcun modo con l’azienda emittente. Ebbene, quale impatto sul bene comune producono i fondi SRI gestiti passivamente, che investono il capitale raccolto scambiando titoli usati nel mercato finanziario? Nessuno: fintantoché non affluisce capitale nell’azienda emittente, essa non avrà alcuna possibilità di investirlo in modo socialmente responsabile, generando un qualche beneficio alla comunità (c.d. impact investing) (27). Se questa è la teoria, ci attendiamo che la dimensione dei fondi SRI presenti sui mercati sia principalmente a favore della seconda o della terza strategia di gestione.
Verso l’impact investing?
Nel 1995 negli USA la dimensione del mercato dei fondi SRI era di circa US$ 600 miliardi, ma a fine 2011 ha raggiunto l’enorme cifra di 3.744 miliardi di dollari (pari al Pil di Canada e Brasile insieme), con una crescita media annua (CAGR) del 13,6% nel periodo 2009/2011 – e.g. post crisi finanziaria. In Europa si registra un tasso di crescita persino migliore, in un mercato di dimensione circa doppia (cfr.: Tabella 1).
I dati sembrano incoraggianti, ma occorre rilevare, con riferimento all’Europa, la prevalenza delle gestioni passive: i fondi attivi nella promozione di una conduzione responsabile delle imprese o che favoriscono attività a impatto sociale e sostenibile, complessivamente non raggiungono il 15% del totale fondi SRI (a loro volta una piccola frazione del capitale complessivamente investito nei mercati). Come conseguenza della ridotta dimensione del capitale raccolto per generare un impatto sociale, vi è la limitata numerosità di prodotti finanziari e quindi la formazione di competenze specifiche diffuse. Infatti, in Europa, operano solo 13 gestori specializzati nella gestione di soli fondi SRI, che gestiscono 70 fondi, per un totale di appena euro 9,95 miliardi (28). L’industria del risparmio ha creato i prodotti richiesti dal mercato, ma sono ben pochi gli intermediari che operano esclusivamente per il bene comune.
Perché i prodotti finanziari utilizzabili per la costruzione del bene comune sono cosí marginali nella comunità finanziaria? Se è vero che la finanza fornisce a-moralmente gli strumenti utili a perseguire i fini dell’agire umano, allora non è qui chiamata in causa la scarsità nell’offerta di prodotti finanziari, bensí la scarsa manifestazione del bisogno degli investitori di “mettere il capitale al servizio della comunità”.
La domanda di fondi SRI è oggi prevalentemente da parte di investitori istituzionali, non da singole persone (29). Le istituzioni, infatti, sopravvivono ai loro fondatori, perpetuando cosí la ricerca di quei valori presenti a quel tempo nell’agire umano, ma oggi spesso assopiti nei sentimenti o nelle passioni dell’individuo e nei costumi della società. È nel risveglio delle coscienze, svelando il velo dell’ignoranza, che si dovrebbe cercare un fattore determinante il cambiamento – se fosse doveroso agire per cambiare una società. Infatti, richiamando Einaudi: «Il mercato … può dare risultati ancora piú stupendi se noi sapremo perfezionare e riformare le istituzioni, i costumi, le leggi entro le quali esso vive allo scopo di toccare piú alti ideali di vita».
Fino a quando l’agire economico del singolo investitore sarà prevalentemente mosso dall’utilità personale, dal profitto e dall’accumulazione della ricchezza, non può crescere la domanda di prodotti finanziari per il bene comune (30). In altri termini, fino a quando i costumi della società, o l’etica degli investitori, non saranno proiettati in una dimensione comunitaria, saldata da legami universali, i fondi SRI ad impatto sociale e ambientale, prodotti finanziari idonei a perseguire il bene comune, resteranno ai margini della comunità finanziaria; come miliardi di persone sono ai margini dello sviluppo umano integrale.
Alberto Lanzavecchia
Università degli studi di Padova
Note
1) Le regole dell’economia non sono altro che algebra elementare: addizioni e moltiplicazioni.
2) S. N. Nagvi, Ethics and economics: An Islamic synthesis, The Islamic Foundation, Leicester 1981.
3) A. H. al-Ghazali, Collection of letters, Dar Al-Fakr, Beirut 2006; A. T. al-Maki, Guot al-Gwlob (Nourishment of hearts), Parte 2, Dar Sader, Beirut 1995.
4) A. J. Ali, A. Al-Aali, A. Al-Owaihan, Islamic Perspectives on Profit Maximization, Journal of Business Ethics, 117:467-475, 2013.
5) Maometto in A. Al-Barai, A. Abdeen, Management in Islamic culture, Modern Service Library, Jeda 1987.
6) Holy Qu-ran, English translation of the meanings and commentary, Al-Madinah Al-Munawarah: King Fahd Holy Quar-an Printing Complex, 1989, 49:13.
7) A. T. al-Maki, Guot …, op. cit.
8) Maometto in A. Al-Barai, A. Abdeen, Management …, op. cit., p. 468.
9) Per approfondimenti, si rimanda a A. J. Ali, A. Al-Aali, A. Al-Owaihan, Islamic Perspectives …, op. cit.
10) D. B. Bressler, “Ethical Investment”, in Moses Pava and Aaron Levine (eds.), Jewish Business Ethics, Yeshiva University Press, New York 1996, p, 177
11) Si pensi alla parabola dei talenti di Gesú, narrata nel Vangelo secondo Matteo (25,14-30) o a quella simile, detta parabola delle mine nel Vangelo secondo Luca (19,12-27): è premiato chi investe, è punito chi rende infruttifero ciò che, in potenza, può generare.
12) Per bene comune si intende «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione piú pienamente e piú celermente». Cfr. Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et Spes, 26: AAS 58 (1966) 1046; cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1905- 1912; Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et Magistra, in AAS 53 (1961) 417-421; Id., Lett. enc. Pacem in terris, in AAS 55 (1963) 272-273; Paolo VI, Lett. ap. Octogesima Adveniens, 46, in AAS 63 (1971) 433-435.
13) Cfr. Teodoreto di Ciro, De Providentia, Orationes 5-7, PG 83, 625-686.
14) P. D. Kinder, S. D. Lydenberg, A. L. Domini, The Social Investment Almanac, Henry Hold and Company. New York 1997, p. 14.
15) Come tentativo di sintesi di concetti religiosi e laici, sicuramente vano, per “bene comune” qui di seguito intendiamo il progresso dell’umanità, sotto le tre dimensioni della morale, delle relazioni sociali e dell’ambiente in cui vive l’uomo.
16) Benedetto XVI (2009), Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 3:36, p. 57.
17) Per dirla con l’economista Genovesi, «la fede pubblica è dunque la corda che lega e stringe le persone e le famiglie di uno Stato fra loro, col sovrano, o con ogni nazione, con cui traffica … dove la fede è per niente, … ivi non si possono neppure ritrovare i due primi fondamenti della civile società, e vita, i quali sono la giustizia e l’umanità; perché dove non è fede, ivi non è né certezza di contratti, né forza nessuna di leggi, né confidenza d’uomo ad uomo». Cfr. A. Genovesi, Lezioni di Economia Civile, Capitolo X, G. G. Destefanis, Milano 1803.
18) Per la mancanza di iniziative prossime all’investitore.
19) Per ragioni di efficacia ed efficienza nell’uso del denaro (che resta sempre una risorsa scarsa a fronte dei bisogni dell’uomo che tendono all’infinito).
20) C. J. Cowton, Playing by the Rules: Ethical Criteria at an Ethical Investment Fund, Business Ethics, A European Review, 8(1)., 1999, p. 60.
21) S. Schueth, Socially Responsible Investing in the United States, Journal of Business Ethics, 43: 189–194, 2003).
22) M. S. Schwartz, The “Ethics” of Ethical Investing, Journal of Business Ethics, 43:195213 (2003).
23) Trascuriamo qui l’osservazione che, in molti contesti, i costi a carico della comunità, connessi alle cure conseguenti al tabagismo, sono superiori al gettito fiscale che grava sulle sigarette. Pertanto, la libertà di scelta del fumatore determina una conseguenza sulla sfera altrui (la comunità di non fumatori subirà il costo differenziale): in tal senso il tabacco non sarebbe etico.
24) Cfr. il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, noto come “DSM-IV” (ed. 2000).
25) Vedi sopra, tra i divieti della legge ebraica.
26) Solo gli Stati ricorrono continuamente ai mercati finanziari per finanziare il proprio deficit e rifinanziamento dei debiti in scadenza. Peraltro, sull’inclusione di uno Stato nell’elenco degli emittenti “a scopi etici” già abbiamo discusso.
27) Nel 2013 è stata costituita una task force nominata dal G8 e composta da rappresentanti di cinque Paesi: Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Il suo obiettivo è creare misure concrete entro settembre 2014.
28) S. Arrigoni, A. Lanzavecchia, Does Social Responsible Investing Charge Costs Fairly? Evidences from European Financial Markets, Disponibile on line http://ssrn.com/abstract=2336943.
29) European SRI Study, 2012.
30) In tal senso, si potrebbe sostenere che la quota di mercato dei fondi “tradizionali” in una certa comunità sia la misura dell’accumulazione della ricchezza detenuta da operatori mossi da un’etica utilitarista (la quota dei fondi SRI è invece quella detenuta da investitori mossi dall’etica del bene comune); USSIF, Report on Sustainable and Responsible Investing Trends in the United States, 2012.
Ilaria Catastini, Presidente, Hill+Knowlton Strategies, Roma
Il tema della sostenibilità si è fatto largo anche in Italia negli ultimi 30 anni, partendo dai ristretti àmbiti degli addetti ai lavori e dei movimenti ambientalisti e del Terzo settore sociale per approdare, attraverso i media, nella consapevolezza e nelle coscienze di tutti i cittadini.
Oggi le imprese hanno accettato l’idea di un impegno nella sostenibilità sociale e ambientale che possa essere utile sia in termini di immagine e di marketing, che in termini di indirizzo concreto delle strategie di business.
In entrambi i casi – ovvero sia che si tratti di un’attenzione alla sostenibilità mossa piú da ragioni di marketing e di posizionamento, sia che si tratti di un’impronta strategica che può orientare il top management nelle scelte di politica industriale e commerciale – l’azienda deve fare i conti con la comunicazione del proprio impegno all’interno e all’esterno dell’impresa.
Coinvolgere l’azienda
La comunicazione all’interno dell’azienda sui temi della sostenibilità è di fondamentale importanza, soprattutto quando si tratta di portare l’intera azienda a muoversi secondo la cultura e i princípi della sostenibilità.
Poco importa se un consiglio di amministrazione emette dichiarazioni in tema di sostenibilità, o detta orientamenti o obiettivi da raggiungere, se poi il top e middle management non si sente direttamente motivato e coinvolto nel perseguimento di tali orientamenti e nel raggiungimento di quegli obiettivi, o se addirittura questi confliggono con interessi di natura individuale (ad esempio benefit economici legati ad aumenti delle vendite o dei profitti ottenuti a qualsiasi costo, anche a discapito dei diritti dei lavoratori e della tutela dell’ambiente o della salute della comunità).
L’azienda è un’organizzazione complessa e articolata che muove in una direzione piuttosto che in un’altra se ogni individuo che la compone condivide lo stesso percorso.
Le aziende sono fatte di individui, persone, mosse ognuna prevalentemente da interessi di natura personalistica, che in molti casi confliggono con gli interessi dell’azienda come soggetto economico e in molti casi non coincidono con quelli dell’ambiente o della collettività.
Per porre l’azienda nel suo complesso in condizioni di sostenere una policy di sostenibilità, occorre che tutti i dipendenti siano informati, motivati, che arrivino a condividere gli obiettivi aziendali, anche magari con incentivi personali. I progetti di volontariato aziendale sono molto utili in questo senso, come anche iniziative di cause related marketing che vengano ben comunicate anche all’interno. I mezzi da utilizzare per la comunicazione interna di queste tematiche sono i piú disparati: si va dalle comunicazioni via intranet, alle Newsletter interne, alle giornate dedicate a precisi temi con impegni individuali dei dipendenti, alle campagne interne per il risparmio energetico, la raccolta differenziata negli uffici, la mobilità sostenibile, e via dicendo.
Il coinvolgimento degli stakeholder
La comunicazione agli stakeholder esterni dell’azienda è ovviamente piú complessa e articolata e dipende dal target al quale è indirizzata.
Comunità finanziaria
La comunità finanziaria è uno dei target piú delicati. Comunicare in modo puntuale e trasparente alle Borse e alle società di rating (per le aziende quotate) o alle banche e agli investitori le proprie policy di sostenibilità e gli impegni e gli investimenti in tal senso orientati, può determinare un aumento di fiducia dei mercati (per un meccanismo di riduzione di rischi correlati a cattiva governance) e di valore del titolo, o piú semplicemente, maggiore facilità di accesso al credito. I media economico-finanziari giocano un ruolo importante in questo contesto e dunque una attenta e corretta gestione di ufficio stampa è fondamentale in questo senso. Come importante è la cura del profilo pubblico e della reputazione delle spoke person dell’azienda, siano essi i leader (amministratori delegati o presidenti) o altre figure a ciò incaricate.
Uno strumento di fondamentale importanza per quest’area della comunicazione aziendale è il “bilancio di sostenibilità”: ormai la diffusione di questo strumento è amplissima; in Francia è stato reso obbligatorio; gli analisti finanziari iniziano a considerarlo un importante compendio al classico bilancio di esercizio, e le aziende piú all’avanguardia hanno iniziato a sperimentare il modello di bilancio integrato, in cui gli aspetti economico-finanziari, le performance ambientali e gli elementi di valore aggiunto sociale sono integrati tra loro e danno maggiormente una fotografia dell’inclusione delle policy di sostenibilità nelle strategie aziendali e di business.
Comunità locale
La comunità locale è un target estremamente importante verso il quale la comunicazione diventa dialogo, interazione, costruzione di un percorso e di valori e progetti comuni. I territori sui quali insistono le fabbriche e i siti di produzione, magazzini e centri logistici, punti vendita e uffici di un’azienda, sono àmbiti nei quali l’impresa svolge un ruolo di “cittadino”, e come tale deve rispondere, con responsabilità, ad alcune leggi e princípi comportamentali, pagando le tasse, osservando norme e regolamenti locali, non inquinando o sperperando le risorse naturali, non procurando rischi per la salute delle popolazioni, come per quella dei suoi lavoratori, occupandosi delle emergenze locali o delle situazioni di difficoltà nella comunità come dovrebbe fare ogni buon cittadino.
Ci sono aziende che pur avendo costruito un rapporto ottimale con la propria comunità di riferimento, hanno poi dimostrato di non essere aziende responsabili. È il caso di Parmalat, azienda da sempre impegnata a sostenere con elargizioni e donazioni i bisogni della comunità locale, ma poi altrettanto impegnata a sperperare, con una governance fraudolenta, il capitale acquisito e la ricchezza costruita con l’aiuto dei risparmiatori.
Vi sono aziende che non hanno saputo costruire con il territorio che un rapporto di abuso indiscriminato delle sue risorse, siano esse naturali o umane, restituendo soltanto danni e dolore, accanto ai posti di lavoro. È il caso dell’Ilva di Taranto, solo per citarne uno. Viceversa ci sono imprese che, come Luxottica, investono in un rapporto di fiducia con le zone dove operano, o traggono dal legame col territorio la linfa vitale per la loro sopravvivenza, com’è il caso di tante imprese emiliane che dopo il terremoto sono state in grado di risorgere grazie all’aiuto dei dipendenti e delle loro famiglie, e hanno fatto di tutto per salvaguardare i posti di lavoro e il futuro di tanta gente.
Tante sono le aziende, anche piccole e medio piccole, italiane, che tanto fanno per la propria comunità, senza necessariamente comunicarlo con una logica di marketing. È la comunicazione del fare, delle relazioni vere e salde di tante famiglie di imprenditori con i propri lavoratori e con il tessuto sociale locale. È quello che tiene ancora insieme l’economia italiana, nonostante la crisi e quello su cui occorre tornare a investire, anche come Paese.
Clienti e fornitori
I clienti e la rete commerciale rappresentano un target rispetto al quale un profilo di sostenibilità ben comunicato può aumentare la fidelizzazione di marca e rappresentare una chiave per consolidare la propria immagine o acquisire nuove fette di mercato.
I canali e gli strumenti di comunicazione sono quelli tradizionali del marketing, pur cambiando i messaggi, il tono e lo stile degli stessi. Il rischio che si corre è che la comunicazione venga interpretata come “green washing”. Un rischio sempre presente, se la comunicazione non è accompagnata e sostenuta con l’evidenza di fatti e numeri e risultati concreti.
L’area “fornitori” è assai complessa, quando si ragiona di comunicazione sui temi della sostenibilità. In modo particolare, a essere oggetto di grande attenzione sono le filiere lunghe e internazionali. Settori come quello dell’abbigliamento, ad esempio, sono da tempo oggetto di un processo di transparency per l’articolazione delle filiere produttive delocalizzate in una miriade di sub forniture, situazioni che non garantiscono la tracciabilità della filiera stessa e il suo controllo in termini soprattutto di rispetto delle norme e degli standard in materia di diritti umani, condizioni di lavoro e sicurezza, ambiente e parametri retributivi.
Comunicare attraverso la filiera, se molto articolata, è cosa piuttosto complessa. E la comunicazione può essere soltanto un utile complemento di azioni di monitoraggio, selezione e verifica piú incisive. Ad ogni modo, la tendenza sembra essere sempre di piú quella di rendere fruibili anche al consumatore finale le informazioni sulla filiera di produzione, mettendo nelle condizioni fornitori e sub fornitori di venire allo scoperto rispetto alle proprie politiche.
Istituzioni
Il rapporto con le Istituzioni, siano esse locali, centrali o internazionali, è da ascriversi ancora nel limbo delle attività prevalentemente mirate al monitoraggio normativo e delle relazioni a scopo lobbistico che, se intese nel puro senso anglosassone e prive di pratiche illegali, non possono – beninteso – che migliorare e aiutare il difficile rapporto tra Governi e Imprese.
È raro trovare rapporti pubblico-privato improntati a una comunicazione rivolta a un fine comune che prescinda da quello politico, da un lato, e da quello economico o utilitaristico, dall’altro. Ciononostante, buoni esempi ci sono e andrebbero di certo incoraggiati da una parte e dall’altra.
Imprese che sostengono la cultura o il welfare laddove lo Stato non riesce piú a provvedere, Enti locali che premiano le aziende responsabili indirizzandole verso una corretta cittadinanza d’impresa, sono tutti esempi su cui lavorare, ma essi andrebbero accompagnati da un cambio di paradigma nell’applicazione di comportamenti etici e responsabili, da una parte e dall’altra, in ogni fase della vita sociale ed economica.
Troppo spesso ancora corruzione e concussione prevalgono sulla correttezza delle relazioni istituzionali; troppo spesso la pubblica amministrazione è la prima a non agire in modo responsabile quando proroga a tempo indeterminato i propri debiti verso il settore privato, mettendo in seria difficoltà le imprese, o quando rende complessi e bizantini processi burocratici che dovrebbero essere agili e rapidi per consentire all’impresa di agire al meglio, a vantaggio dell’economia e dell’occupazione. E troppo spesso le imprese considerano la pubblica amministrazione solo in chiave utilitaristica e di difesa e non come soggetto insieme al quale lavorare per il benessere della collettività.
Mass media, Internet, Social network
L’opinione pubblica è l’ultima tappa del nostro viaggio. Attraverso i media, attraverso Internet e i Social Network, le aziende dialogano con i propri clienti ma anche con un pubblico infinitamente piú vasto, un pubblico che oggi, con la diffusione e l’aumento esponenziale di capacità di utilizzo del web, può davvero determinare il successo o l’insuccesso di un prodotto, di un brand, anche per ragioni legate alla sostenibilità.
Sono sempre piú frequenti le campagne di boicottaggio sul web da parte di migliaia di persone rispetto ad aziende che si sono macchiate di comportamenti giudicati irresponsabili. È una vera rivoluzione, quella che sta avvenendo sotto i nostri occhi.
Non ci sono tecniche particolari, strategie o tattiche che tengano: l’azienda è giudicata per quel che dice, ma ancora di piú per ciò che fa. O che non fa.
La migliore strategia è un comportamento aziendale ambientalmente e socialmente responsabile, una comunicazione trasparente, corretta e onesta.
Le aziende che promettono e non fanno, o quelle che dicono di aver fatto cose che non hanno fatto, o quelle che imbrogliano l’opinione pubblica nei contenuti della comunicazione, subiranno sempre piú un danno di reputazione che potrà portare all’insuccesso e alla catastrofe.
Il web è in grado di mobilitare migliaia, milioni di persone in poco tempo e a costo zero. L’immagine non è uno schermo protettivo contro scandali che mettono a nudo le menzogne. E i consumatori disposti a cambiare abitudini d’acquisto per ragioni ideologiche o semplicemente morali sono in aumento, complice anche la crisi, che sta rendendo le persone piú fragili ma anche piú sensibili.
Le ingiustizie sono piú difficili da tollerare e l’insofferenza che iniziamo a riscontrare in politica e nella società vale anche sul terreno economico.
Non resta che una strada: quella della coerenza, dell’etica e della correttezza. La sostenibilità del futuro inizia da qui.
Ilaria Catastini
Presidente, Hill+Knowlton Strategies, Roma