Imparare a invecchiare, tra valori simbolici e questioni sociali
Giovanni Bianchi, Acli, Milano
Che noi siamo un Paese per vecchi non è del tutto una iattura. Per due ragioni specificamente italiane. La prima ragione concerne il nostro abusivismo esistenziale nella sua relazione alla presente condizione umana. In un reportage natalizio da Korogocho, la discarica che era stata eletta a dimora e parrocchia da Alex Zanotelli alle porte di Nairobi, Enzo Biagi ricordava anni fa agli ascoltatori che gli uomini che comparivano davanti alla telecamera non avrebbero raggiunto i cinquant’anni. Cosí vuole la globalizzazione. Cosí impongono le regole dell’esclusione stabilite dal mondo finanziarizzato. Si è vecchi nel Continente Nero a quarant’anni d’età, e ti capita sovente di scambiare per coetaneo uno che è venuto al mondo qualche decennio dopo di te.
Oltre il familismo
Non riflettiamo, talora, sulla circostanza che l’anziano è una figura assolutamente moderna: figlio dello Stato Sociale, di Keynes e di Beveridge. L’anziano cioè non preesiste al Welfare. È il totalmente altro rispetto al vecchio scalzo di Korogocho o a quello con gli zoccoli del giustamente famoso film di Ermanno Olmi. Il vecchio è sdentato, colmo di acciacchi, indisponibile (salvo rare eccezioni) al nuovo, raggomitolato nel nirvana della memoria, quasi in essa assiderato.
L’anziano frequenta la piscina e la palestra un po’ meno dei nipotini, porta la tuta e le reebok, è abbonato al concerto, s’innamora. È un bersaglio del nuovo consumismo. Protagonista o almeno comprimario di soap televisive; chi non ha fatto almeno una volta il tifo per Banfi e i suoi ammiccanti personaggi? È anche democraticamente disponibile e attivo. Colonna non appariscente dell’associazionismo e del volontariato, Acli incluse. Senza il suo tasso di partecipazione competente, generosa e gratuita tanto tessuto della società civile risulterebbe semplicemente inimmaginabile. Grey power? Quien sabe?
Certo è che se è vero – come ha piú volte ripetuto Romano Prodi – che il Welfare è la piú grande invenzione politica del secolo che è scivolato alle nostre spalle, va fatta mente locale sul fatto che il Welfare è condizione unicamente europea, desolatamente europea. E di non tutta l’Europa. C’è Welfare in Romania, in Bulgaria, in Kosovo?
Altrove, per l’80% di questa umanità, i problemi quotidiani si chiamano fame, malattia, Aids, guerra. Rispetto agli abitanti di Korogocho, la cui speranza di vita non arriva a cinquant’anni, noi cittadini del Vecchio Continente, dopo il mezzo secolo di vita, stiamo al mondo da abusivi, a dispetto di qualsiasi Carta, ovunque redatta, che proclami i diritti dell’uomo a partire dall’uguaglianza. Noi, le nostre cliniche, la gerontologia, le settimane bianche e azzurre, le palestre attrezzate, gli alberghi con appositi bagni termali e fisioterapie, buona parte dell’apparato consumistico e di servizi. Uomini manipolati con intenzioni opposte. Pezzi di mercato falsi in radice perché ingiustamente superflui. Intere infrastrutture da avviare al macero. Abusivismo esistenziale del Nord e dei suoi abitanti. Europa sazia e disperata, mi vien voglia di urlare rifacendo (pensa un po’) il verso al cardinale Biffi di Bologna. Non solo stiamo al mondo trampolieri, per essenza. Ma per esistenza vi stiamo da abusivi, occultando giorno dopo giorno la nostra condizione per non accrescere l’infelicità inevitabile della nostra coscienza. Non piú figli e nipoti dei Lumi. Abiurato di fatto il cristianesimo, perché quel che conta è l’ortoprassi: avevo fame, avevo sete, sta scritto. Dopo aver pasticciato con le parole, quasi che la sussidiarietà potesse surrogare o evitare la solidarietà, quasi non fosse un metodo per il quale è gioco-forza fare un’opzione orientata o alla solidarietà o al darwinismo sociale che fa del Mercato il solo feticcio abilitato a produrre il pensiero unico…
La seconda ragione riguarda la trasformazione positiva che durante la crisi in atto ha subito quel familismo italiano che la sociologia americana (cfr. Banfield, La Palombara) giudicava non soltanto diffuso, ma anche “amorale”, incapace cioè di fermento associativo soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, causa di sottosviluppo economico, solamente inteso a perseguire l’interesse immediato degli individui e del proprio nucleo familiare, senza riguardo alcuno per l’interesse della collettività intera. Le cose sono invece andate assai diversamente e in maniera inattesamente positiva. È attingendo al patrimonio dei genitori, non di rado alle loro pensioni, prolungando l’attaccamento alla “famiglia mediterranea” che le nuove generazioni hanno provato a resistere alla crisi e a reggere l’urto dell’incertezza, del precariato, di un lavoro che manca che – come ha ricordato Aris Accornero – «stanca di piú del lavoro che stanca».
Il familismo si è fatto cioè virtuoso e inaspettatamente generoso e comunicativo, conservando una serie di legami primari e di reti familiari per consentire quantomeno la speranza di allacciare nuovi legami sociali e aprire percorsi di futuro. Le generazioni cioè si sono date una mano facendo passare in seconda linea la competizione.
Cosí molti giovani hanno potuto reggere in qualche modo alla prima parte della crisi e se uno spettro si avanza nel Paese è costituito dalla fine delle riserve, dal venir meno del fieno nella cascina dei genitori che spalanca una condizione inedita (anche se prevista e dichiarata; ma altro è dire e altro sperimentare sulla propria pelle) di arretramento delle nuove gene- razioni nella scala del benessere. Né molto hanno saputo fare per mutare circostanze e opportunità tecnici e professori di Governo, resi inefficaci dall’abitudine a leggere piú i libri che gli uomini.
Una famiglia multigenerazionale
E dunque? Gli anziani, anzi i vecchi ci sono sempre stati … Tuttavia, la situazione ha subíto una profonda evoluzione quantitativa e qualitativa. Una volta i vecchi rappresentavano i sopravvissuti abbastanza rari di un’ecatombe che colpiva le popolazioni piú giovani (mortalità perinatale, epidemie, guerre, malattie acute, …) e inoltre vivevano in un mondo dove la vulnerabilità era un destino comune. Non è il caso di idealizzare quel tempo, in cui i bambini nascevano molto spesso quando erano già morti i quattro nonni e perciò quando la famiglia non poteva essere multigenerazionale.
L’invecchiamento della popolazione, frutto del progresso medico e sociale, pone quindi dei problemi nuovi alla famiglia, che ne risulta profondamente trasformata. Ora la risposta della famiglia è largamente influenzata dalla cultura dominante del- la nostra epoca, segnata dal primato dell’oggettivazione, dalla volontà di dominio e dal prestigio dell’approccio medico.
Questa ideologia comporta un’oscillazione che, da una parte, nega la vecchiaia, sempre evitata e rinviata, nella esaltazione dell’attivismo e dell’utilitarismo e, dall’altra parte, riduce la vecchiaia a una malattia che deve essere curata con la medicina, quando gli anni inevitabilmente si cumulano. Una ricerca tutta inscritta nella scienza gerontologica, in grande espansione, ma soprattutto in quella cultura del consumo, nelle sue opportunità e nei suoi diritti, che è cosa drammaticamente seria e terribilmente in crisi a partire dall’infarto nel cuore di Wall Street del 2008. Una crisi che terremota la finanza globale, a partire dagli Stati Uniti, e produce uno tsunami nell’Unione Europea, obbligando tutti a riscoprire e a fare i conti, soprattutto in politica, con il concetto di “limite”. A ritrovare le modalità che possano riallacciare l’economia con la società e la quotidianità.
Vedremo che questa ipermedicalizzazione della problematica della vecchiaia provoca paradossalmente un aggravamento dei fenomeni patologici, tramite la rottura della solidarietà familiare e amicale, l’incomprensione delle dinamiche affettive e l’espropriazione dell’anziano mediante meccanismi di oggettivazione. Con la proverbiale saggezza biblica intrisa di ironia, il cardinale Martini usava ripetere che la medicina ha finito per allungare le malattie (e quindi l’esistenza).
Una questione di interdipendenza: famiglia, anziano, società
Se la famiglia vuol essere un luogo per «vivere, amare e morire», deve considerare l’anziano in maniera differente, con una visione del problema che non lo chiuda piú in sé stesso, ma si apra all’altro come persona. Ciò si può realizzare unicamente in una profonda interdipendenza fra l’anziano, la sua famiglia e gli altri in una società solidale. L’avanzamento negli anni esige che l’individuo vada oltre l’immagine di sé stesso, accetti questa perdita mediante un «processo di lutto» in cui abbandona le sue identificazioni e si apre ai nuovi avvenimenti. Senza dubbio, tale evoluzione sarà possibile solo se è accompagnata e sostenuta dalla famiglia e dall’ambiente sociale. Questo dialogo con l’anziano nel suo progressivo evolversi provocherà a sua volta effetti sui parenti in una sorta di pedagogia del non-dominio e dell’interdipendenza. Solo un atteggiamento di esclusione o di negazione dell’anziano permette agli altri di illudersi sul loro pseudo-dominio e sulla loro indipendenza narcisistica, mettendo tra parentesi la prospettiva che, se tutto funziona per il meglio, l’età anziana sopraggiungerà anche per loro, generalmente sorprendendoli con una sorta di anticipo imprevisto. La verità è che l’anziano delle società occidentali muove in una terra di nessuno tuttora sconosciuta, incerto sulla natura del tempo concessogli, sulle potenzialità a sua disposizione, sull’uso di una fascia di esistenza alla quale l’umanità non è stata fin qui preparata dalla storia. Una vita disponibile, ma inevitabilmente vuota.
Questo rimettere in causa i nostri desideri di dominio e le nostre comodità narcisistiche è particolarmente violento nei casi di pazienti detti “dementi”, con tutte le riserve che impone questo termine generico. Tale contatto può essere talmente sconvolgente da suscitare differenti reazioni di rigetto o di fuga. Quegli stati contrassegnano effettivamente i limiti della nostra razionalità e della nostra ansia, della nostra affettività e delle nostre convinzioni. Una riflessione sull’invecchiamento non può ignorare né quegli individui che vivono la “grande prova”, né le loro famiglie che si dibattono in problemi materiali, psicologici ed etici. In simili momenti di solitudine, limitatezza e incertezza estrema s’impone piú che mai la necessità della solidarietà fra la persona, la sua famiglia e la società, attraverso umili atti creatori di umanità piú profonda. Con l’avvertenza che tutti gli attori sono impreparati a una scena che assegna per tutti parti fin lí non interpretate.
Far crescere una umanità piú profonda
La famiglia dunque si evolve… Non è piú «quella entità economica in cui si effettuava la produzione e che assicurava l’istruzione, l’educazione, la previdenza sociale, la medicina e la composizione dei conflitti». Pertanto, in quel modello tradizionale, solo ad essa incombeva la responsabilità del benessere dei vecchi genitori. Un compito che di solito era assunto in un quadro di coabitazione diretta. Tuttavia, quel modello corrispondeva a un ambiente socio-economico particolare, poiché si trattava soprattutto di una società rurale e agricola. Un modello che spesso è idealizzato ed evocato in maniera ingenuamente nostalgica. Secondo parecchi autori, se esistevano le famiglie multi-generazionali, il loro numero doveva essere scarso per l’età media assai bassa e per l’età avanzata del matrimonio.
Ricordiamo che poco piú di un secolo fa (fra il 1830 e il 1850), in Belgio l’età media della vita era di 37 anni per gli uomini e di 39 per le donne. Nel XVIII secolo l’età in cui la maggioranza dei francesi perdeva il padre e la madre si concentrava fra i 25 e i 35 anni, mentre oggi va dai 30 ai 60 anni. Cosí, su 100 bambini, soltanto 5 alla nascita avevano ancora vivi i loro quattro nonni. Oggi ce ne sono 41.
Inoltre, gli uomini si sposavano piú tardi e in generale morivano prima che i loro figli piú giovani raggiungessero l’età adulta, si sposassero e lasciassero il tetto paterno.
Nel XVIII secolo e in precedenza, le generazioni si succedevano, mentre ora si accavallano. Come diceva Philippe Ariès, «la storia della famiglia è ancora condizionata da idee false, che risalgono al modello costruito alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX secolo dai filosofi illuministi e dai sociologi tradizionalisti… Ricorderò soltanto che la famiglia patriarcale non è mai esistita, almeno nelle nostre società». Tra queste idee false, c’è la nostra tendenza a idealizzare il passato e a deplorare invece l’abbandono attuale dei vecchi da parte della famiglia.
Nella famiglia “mediterranea”
La famiglia è cambiata. È diventata cioè multi-generazionale, pur restando da noi parzialmente “nucleare” e parzialmente “mediterranea”, perché le varie generazioni non sono rimaste sotto lo stesso tetto. Questo però non significa la fine della coesione familiare. Essa continua a svolgere un ruolo effettivamente essenziale nella vita quotidiana, come sostiene la tesi dell’“intimità” a distanza. La famiglia fornisce assistenza («una risposta personale ai bisogni individuali dei suoi membri») e relazioni affettive intergenerazionali in cui si fondono indipendenza e solidarietà. Lo conferma il fatto che oltre la metà degli anziani che vivono soli o in coppia hanno un figlio che vive a meno di un’ora di distanza.
Sembrano decisamente superati i titoli che comparivano sui giornali negli anni Settanta: “La morte della famiglia”, “Finita la famiglia?”. Si è invece tentati di dire: la storia della famiglia è recente ed è in sviluppo. La famiglia appare sempre piú come un luogo privilegiato per lo sviluppo e la protezione degli individui. Tuttavia, solo molto di rado, gli studi sulla famiglia affrontano il problema dell’invecchiamento e della morte dei genitori. Ora, il riferimento ai nostri antenati (soprattutto quelli che si sono conosciuti, ma anche quelli di cui si è sentito parlare) è di fondamentale im- portanza, perché contrassegna l’inserimento nella storia e la continuità della famiglia, e perché dà luogo a un tipo particolare di relazione.
Per quale anziano?
Tuttavia, la famiglia può svolgere questo ruolo fondamentale solo se dispone dei mezzi per comprendere e integrare le situazioni legate alla vecchiaia. Lavorando con le famiglie, ci siamo resi conto di come la vecchiaia, le sue caratteristiche, le sue difficoltà e le sue potenzialità siano ancora ben poco conosciute. II modello di spiegazione è quasi sempre la malattia: l’anziano è un adulto colpito da malattie, da polipatologie, come si dice oggi. Una personalità lamentosa o almeno inclinata al lamento. Di conseguenza la medicina deve offrire i rimedi… e si crea una specie di spirale della medicalizzazione. Ad essa si unisce comunemente una sensazione di frustrazione di fronte alla medicina, che può alleviare un certo numero di problemi, ma non riesce a impedire all’individuo di invecchiare, quindi di cambiare e di entrare in un’altra fase dell’esistenza.
Qui si colloca però, strutturalmente e culturalmente, un nodo cruciale del welfare italiano che ha qualcosa da dire anche alla nostra cultura quotidiana. Un nodo che interroga le possibilità di cambiamento delle politiche sociali nel nostro Paese. Il luogo cioè – a cavallo tra vita familiare e Stato – che dovrebbe indurre a non ulteriormente dividere sanità e assistenza, sia quanto alle risorse, sia quanto all’organizzazione amministrativa. Siamo infatti e comunque intervenuti nei decenni passati su lavoro, previdenza, scuola, sanità; l’assistenza non è stata invece mai riformata. Circostanza alla quale si è accompagnata una progressiva perdita di risorse dedicate all’assistenza, peraltro poco culturalmente e amministrativamente definita. Un varco alla monetizzazione delle prestazioni (il voucher) in nome di un assai mal posto mantra che voleva piú società e meno Stato. Con una conseguenza immediata e inevitabile: il taglio della spesa in materia.
Universalità ed equità della prestazione
È questa dunque una delle prospettive dalle quali provare necessariamente a guardare la crisi in atto come opportunità e non soltanto come calamità. Siamo circondati da Assessorati alla Sanità e sguarniti di autorevoli presidi amministrativi per l’assistenza. Una prospettiva che avrebbe molte cose da indicare a un federalismo che cessasse d’essere la propria caricatura per assumere l’intercomunalità (consorzi tra diversi Comuni, ma non soltanto) come un punto nodale e un trampolino di lancio di quell’universalismo selettivo già previsto dalla Commissione Onofri del 1996. Va da sé che se intendo spostare e concentrare sul territorio gli interventi, bisogna che il territorio medesimo si attrezzi. Equità e cultura si danno in questo caso una mano e potrebbero costituire davvero una coppia sponsale.
Per gli anziani non autosufficienti ad esempio abbiamo per tutti oggi un sussidio corrisposto nella stessa misura, indipendentemente dal reddito: chi fatica a fare la spesa riceve cioè un sussidio nella stessa esatta quantità di un vecchio imprenditore di grande azienda o di un ex direttore di banca. Si tratta in effetti di spostare l’attenzione e i fondi dalle erogazioni monetarie ai Servizi, dove l’universalità della prestazione e l’equità si tengono piú facilmente, e dove anche sarebbe possibile creare da subito occupazione e in particolare occupazione femminile.
Non a caso siamo il Paese che ha inventato, dal basso, le badanti.
Che l’evocazione del federalismo e di una rinnovata struttura amministrativa non siano in questo caso né uno slogan né una stanca giaculatoria lo testimonia la dimensione media del Comune italiano che annovera 8.000 abitanti, laddove la dimensione ottimale viene stimata intorno ai 50.000. Oltretutto sarebbe l’occasione per rimodulare gli interventi destinati alla cronicità delle malattie, che vedono ad esempio la Lombardia fare i conti con il proliferare di fenomeni di abbandono e solitudine conseguenti all’aumento della popolazione anziana che, negli ultimi cinque an- ni della vita, si trova a far fronte a condizioni esistenziali di drammatica precarietà. Quasi a dire che la precarietà ha cessato di essere uno stigma della sola condizione giovanile. Insomma, non è una buona notizia né una felice constatazione che la Sanità abbia assorbito totalmente l’attenzione sul sociale. Riequilibrare sarebbe non soltanto saggezza amministrativa, ma politica attenta all’equità e memore del nostro personalismo costituzionale.
La vecchiaia è una età difficile da accettare: come avviene per gli adolescenti – che i genitori considerano ancora bambini – l’entourage degli anziani vorrebbe conservare la propria immagine di adulti nel fiore dell’età, minimizzando le crisi della senescenza e gli adattamenti necessari.
Un discorso collettivo sulla vecchiaia
Prima di parlare delle patologie dell’anziano, è quindi importante parlare della vecchiaia, informare e creare in qualche modo un discorso collettivo sulla vecchiaia, che non riguardi solo la malattia, ma sia anche una riflessione sulle evoluzioni e sugli elementi specifici della vita affettiva degli anziani, dei loro timori e delle loro speranze, delle caratteristiche che sono loro proprie. Occorre anche ricordare che le sindromi psichiatriche piú frequenti negli anziani sono i fenomeni ansiosi (oltre il 30% degli anziani soffrono di turbe ansiose) e depressivi (i disturbi depressivi si riscontrano in circa il 20% degli anziani). È innegabile che i fattori culturali contribuiscano notevolmente a produrre tali disturbi, anche se non ne sono le uniche cause: l’angoscia e il rifiuto d’invecchiare sono onnipresenti. Se l’anziano è vissuto unicamente come un adulto malato e handicappato, come evitare questi riflessi psicologici? Un discorso esageratamente medico può rinforzare un insieme di preoccupazioni somatiche, che spesso prendono una piega ipocondriaca. Allora c’è il pericolo di concentrarsi solo sul corpo, che viene in primo piano considerato come oggetto medico. Questo rischio esiste sia per l’anziano sia per l’entourage e per i curanti chiamati a intervenire. Una platea generalmente non molto allegra e destinata ad allargarsi, a gonfiare i costi e a produrre addirittura nuove competenze e nuove professioni. È il caso già ricordato della “badante”, una figura sociale cresciuta come un fungo nella quotidianità e che, pur nell’improbabilità zoppicante della terminologia, ha trovato come tale una codificazione legislativa e si va estendendo man mano oltre i confini nazionali, penetrando perfino nella Svizzera solerte che nulla lascia al caso e tutto organizza, conducendola oltre la formula collaudatissima di efficienti Altersheim.
Le dimensioni simboliche della vecchiaia
Certo, è proprio dell’essere umano cercare di respingere i limiti imposti dal corpo, ritardare la malattia e la morte, proprio perché l’individuo sente di non essere limitato al suo corpo. Oggi si è tuttavia propensi a insistere esclusivamente su un aspetto unidimensionale, biologico, senza tener conto delle dimensioni immaginarie e simboliche della persona. Ora, è attraverso lo sviluppo di queste dimensioni che si può superare l’invecchiamento del corpo, per ricuperarlo poi nella costruzione di nuovi significati.
L’individuo che invecchia corre effettivamente il grosso rischio d’identificarsi col suo corpo in maniera narcisistica, rifiutando la sua inevitabile alterazione, nel senso etimologico del termine. Si finisce cosí per sfociare in un sentimento depressivo d’abbandono o in un sentimento di persecuzione da parte di quel corpo che invecchia, di quel falso fratello, di quell’alterego che arriva a tradirti diventando fonte di preoccupazioni ipocondriache.
Serve un nuovo approccio pedagogico alla vecchiaia
Perché si parla tanto di crisi della senescenza allo stesso modo in cui si parla dell’adolescenza e in cosa si somigliano? Due caratteristiche rendono queste crisi difficili e a volte dolorose:
- l’immagine di sé, fondamento del nostro narcisismo primario, si modifica profondamente. Nelle persone che invecchiano, come negli adolescenti, il corpo si modifica e la percezione di sé ne è turbata. Ora noi sappiamo come la perdita dell’immagine di sé può essere all’origine dell’angoscia e della sensazione di vuoto. C’è tutto un lavoro di destrutturazione e poi di ristrutturazione psichica; in sostanza si deve realizzare una elaborazione di “lutto”, un lutto della propria immagine. L’invecchiamento implica un lavoro psichico: c’è una elaborazione dell’invecchiamento, come c’è l’elaborazione del “lutto”, e non sono né il lutto né l’invecchiamento a essere patologici, bensí l’arresto dell’elaborazione a causa del rifiuto e della repressione.
- Non si modifica solo l’immagine di sé, ma viene meno il significato, l’ideale dell’io, veicolato dal mito personale e collettivo … L’elaborazione del lutto che ho ricordato può avvenire solo attraverso la simbolizzazione, la formazione di un nuovo linguaggio personale. Ora, anche in questo caso, troviamo un punto comune con l’adolescenza: manca un discorso sociale sull’invecchiamento, o è molto limitato. Come per l’adolescente, c’è un vuoto simbolico, legato in parte al fatto che tale situazione, anche perché dura piú d’una volta, è relativamente nuova per la nostra società, in parte conseguente a una povertà simbolica, a un’elusione del problema nel senso che provoca un ripiegamento narcisistico sul corpo.
Non per niente la risposta offerta alle inquietudini e alle domande degli adolescenti e degli anziani è molto spesso una risposta medica.
Nei contatti con gli anziani e con la loro famiglia è veramente sorprendente constatare che ogni comportamento – anche la reazione piú naturale del soggetto a una situazione penosa – è interpretato nel senso della malattia e della minorazione. È dunque necessaria tutta una “pedagogia d’un diverso approccio” nei riguardi della vecchiaia.
Viene in mente a tale proposito l’iniziativa di Livio Labor, indimenticato mio predecessore alla guida delle Acli, che nei suoi ultimi vivacissimi anni promosse e guidò il Comidan (Comitato per i diritti degli anziani) intendendolo non come soggetto rivendicativo per vecchietti lamentosi, ma come un luogo in cui gli anziani potessero esprimere le modalità della ricerca di un ruolo sociale che viene loro negato.
Senza neppure dimenticare le ragioni della trascendenza: perché la “vita lunga” non può che sostituirsi come fragile surrogato alla vita eterna.
Giovanni Bianchi
Acli, Milano
Bibliografia di approfondimento
E. C. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, 1958, trad. it., Basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna 2008 (ristampa ed. 2006).
J. La Palombara, Clientela e parentela: studio sui gruppi d’interesse in Italia, Comunità, Milano 1967. N. Bobbio, De senectute, Einaudi, Torino 1996.
A. Accornero, Era il secolo del lavoro, Il Mulino, Bologna 2000.
P. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Laterza, Bari 1960.
L. Guerzoni (ed.), La riforma del welfare. Dieci anni dopo la “Commissione Onofri”, Il Mulino, Bologna 2008.