Una leva strategica di innovazione sociale e di nuovi valori civili

Rosangela Lodigiani, Ricercatrice in Sociologia generale, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Mauro Magatti, Professore ordinario in Sociologia generale, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano


 

La lunga e complessa crisi economico-finanziaria in cui siamo ancora immersi – una crisi che è anche sociale, culturale e politica – ha reso piú evidenti e aggravato le criticità del sistema di protezione sociale italiano, da tempo al centro di proposte di riforma rimaste frustrate o incompiute.

La crisi come opportunità di innovazione

Rispetto a tali criticità, la crisi può tuttavia avere un effetto positivo, fungendo da fattore di discontinuità e di innovazione. È propriamente in questa prospettiva che qui la consideriamo, ritenendo che essa possa essere l’occasione per ripensare il sistema di Welfare, il suo ruolo all’interno dei processi di creazione del valore e i termini dello scambio su cui esso si fonda, ovvero lo scambio tra il singolo individuo, titolare di diritti e di doveri, e la comunità politica di appartenenza.
Il Welfare appare oggi piú che mai “fuori squadra” sotto molteplici punti di vista: economico (risorse insufficienti e in calo, in conseguenza dei tagli imposti dal regime di austerity); culturale (perdita di legittimazione nel discorso pubblico e politico, alimentata dal riscontro di sprechi e lacune, inefficienza e inefficacia); sociale (disallineamento tra servizi e provvidenze, da un lato, e rischi e bisogni sociali, dall’altro).
È sul terreno sociale e culturale che si gioca la possibilità per il sistema di Welfare di essere riconosciuto centrale per il benessere e dunque “meritevole” di essere finanziato. L’espandersi di fenomeni quali la non autosufficienza, la fragilizzazione delle reti primarie e del capitale sociale, la vulnerabilità sociale, la precarizzazione del lavoro, l’impoverimento, l’emarginazione, il disagio, ridisegna la mappa dei bisogni sociali: conciliazione famiglia-lavoro, cura ed educazione dei bambini piccoli, assistenza agli anziani, servizi all’impiego, apprendimento continuo, inclusione sociale, sostegno del reddito, ecc. Mentre il sistema di Welfare appare sempre piú in affanno, facile bersaglio dei suoi detrattori, senza finanziamenti né strumenti di policy adeguati alle nuove sfide. Peraltro, l’Italia, con l’Europa, è l’unico luogo al mondo dove esiste un sistema di sicurezza sociale universalistico, grazie al quale (al di là delle differenze che esistono tra i vari Paesi) i cittadini godono di protezione rispetto a una serie di rischi sociali. Nella fase attuale questa consapevolezza, unita alle difficoltà che il sistema vive, obbliga a prendere posizione rispetto al suo futuro e alla domanda che ne consegue: questo sistema è destinato a scomparire o piuttosto può costituire un punto di riferimento per altri luoghi? È una domanda che porta il piano della riflessione in profondità, sino al fondamento antropologico del Welfare. Nella misura in cui tale fondamento sta nell’attribuire a ogni vita un valore assoluto, nell’idea che prendersi cura dell’altro, anche quando fragile, è dovere della comunità, dobbiamo chiederci se riteniamo che questo sia ancora un compito comune; se è giusto che un sistema come il Welfare concorra a farlo e se è possibile che, nel farlo, esso non costituisca un mero costo, un ostacolo alla crescita, un peso insostenibile per la spesa pubblica fuori controllo, bensí condizione della crescita, della democrazia e del benessere (1). Laddove la risposta a questa domanda è positiva – e dunque riaffermiamo il valore del Welfare e il suo essere leva per lo sviluppo sociale ed economico – è però evidente che occorre rinnovarlo profondamente, affinché non aumentino la sua inadeguatezza e incapacità di corrispondere tanto ai nuovi bisogni quanto al suo fondamento antropologico originario.

Segnali di cambiamento dal basso

I segnali in questa direzione non mancano. Uno dei piú interessanti e significativi – emerso proprio in questi anni di crisi – è legato al diffondersi, e al venire alla ribalta del dibattito politico-sociale e mediatico, di forme di finanziamento e investimento privati per realizzare interventi di Welfare non adeguatamente garantiti dalle politiche pubbliche, in àmbiti nei quali la domanda sociale sta lievitando: assistenza per la non autosufficienza, previdenza e sanità integrative, educazione e cura della prima infanzia, contrasto alla povertà, al disagio, all’emarginazione.
Il fenomeno, definito da alcuni studiosi “secondo Welfare” (2), si compone di esperienze fortemente eterogenee, promosse da attori altrettanto diversificati: imprese e parti sociali, assicurazioni private, fondazioni ed enti filantropici, organismi di Terzo Settore. Esso mira a integrare e a supplire alle risorse del pubblico, ma la valutazione della funzione di questo composito mondo non è univoca, e varia non solo a seconda dei settori entro cui esso sviluppa il suo intervento sociale, bensí anche in ragione del modo in cui vengono definiti il confine tra pubblico e privato e le rispettive responsabilità.
Queste forme di finanziamento privato si sviluppano soprattutto territorialmente e dal basso, tramite il coinvolgimento attivo dei beneficiari e la valorizzazione di appartenenze comuni, siano queste ultime legate a una realtà locale, aziendale, occupazionale, associativa, solidaristica, ecc. Gli strumenti di azione sono molteplici: dalla contrattazione collettiva nazionale, categoriale, a quella territoriale e aziendale; dalle polizze integrative a quelle assicurative di tipo privatistico; dalle forme neomutualistiche ai sistemi di defiscalizzazione, all’introduzione di ticket e obblighi di compartecipazione della spesa, a tasse di scopo.
Il fenomeno non è nuovo; tuttavia, non mancano elementi di novità. Anzitutto, le forme auto-organizzative della società civile che attivano iniziative di “Welfare privato” si pongono in una relazione inedita con le politiche pubbliche. Se in passato esse avevano una funzione esplicita di supplenza e di stimolo rispetto al nascente stato sociale, destinato ad accrescere la sua importanza, oggi al contrario esse appaiono tese a colmarne le lacune e semmai il progressivo ritrarsi.
In secondo luogo, se l’affermarsi dei paradigmi di Welfare mix, e segnatamente del Welfare societario (con l’accento posto sulla sussidiarietà orizzontale), ha da tempo innescato processi di pluralizzazione del Welfare, dentro cui crescente spazio e protagonismo è riconosciuto ai soggetti privati, siamo oggi di fronte a una “radicalizzazione” del Welfare plurale (3). Complici la crisi finanziaria e i vincoli macroeconomici, assistiamo infatti all’ampliarsi del tipo di funzioni pubbliche assolte da diverse tipologie di soggetti privati, al diversificarsi degli àmbiti di intervento e soprattutto al rafforzarsi della possibilità/necessità di un finanziamento diretto degli interventi stessi (anche con il concorso dei beneficiari); fattori che danno maggiore sostanza al protagonismo e all’autonomia delle soggettività sociali coinvolte nella produzione del benessere.
Per contro, sino a questa “svolta di accelerazione”, gli interventi erogati da soggetti privati (accreditati, competitori in un regime di quasi-mercato, selezionati tramite bandi e avvisi pubblici) sono stati in larga misura finanziati dalle risorse pubbliche nel quadro di un sistema di Welfare misto, nel quale lo Stato ha sempre rappresentato il soggetto sovraordinato e titolare della funzione pubblica.

Oltre l’economicismo, ritessere la socialità per creare valore

L’idea di un nuovo sistema di protezione che valorizzi il contributo dei soggetti privati viene legittimato nel discorso pubblico in primo luogo con ragioni economiche. I riscontri empirici, tuttavia, mostrano che è infondato attendersi che le forme organizzate di finanziamento privato possano da sole svolgere un’azione di supplenza della spesa pubblica, compensativa di un investimento strutturalmente inadeguato (4). Ciò non significa che lo sviluppo di queste forme di finanziamento non sia importante e da valutare con attenzione proprio in una prospettiva economica: di qui passa comunque uno dei temi piú rilevanti per il futuro. Pensiamo alle potenzialità insite nella riorganizzazione dei flussi finanziari prodotti dalle famiglie attraverso i risparmi, che ancora oggi si disperdono all’interno del mercato senza lasciare traccia sulla comunità.
È però anche in un’altra prospettiva che emerge (e va promossa) la capacità di “creare valore” di questo fenomeno, altrimenti il rischio è che la spinta alla pluralizzazione del Welfare si riduca alla privatizzazione intesa come mercatizzazione, con costi elevatissimi sul piano delle disuguaglianze. Per capirlo occorre guardare a uno degli aspetti che piú rende innovativo tale fenomeno: l’aggregazione della domanda di servizi e provvidenze.
L’individualizzazione di tale domanda promossa sino a oggi con il pretesto di aumentare la libertà individuale di scelta, ha di fatto favorito il mercato e le risposte informali, pesando direttamente sulla spesa out of pocket di individui e famiglie, sovraccaricando le reti di solidarietà parentali, nonché trovando sostegno parziale (e a sua volta individualizzato) nei dispositivi pubblici di solvibilità, quali voucher o detrazioni fiscali. Per contro, i processi di aggregazione favoriti da queste nuove forme di finanziamento privato si muovono in una logica opposta. Riconoscendo che la condizione di fragilità ci caratterizza e ci accomuna in quanto persone, si valorizzano le relazioni sociali e i legami esistenti, visti non piú come una riserva da spremere per comprimere il costo dei sevizi istituzionalizzati, ma come un’infrastruttura informale preziosa per plasmare, contenere e soddisfare i bisogni, rispettandone la loro natura relazionale. Pensiamo alla domanda di cura per gli anziani non autosufficienti e per i bambini piccoli, che ha spinto le famiglie a onerose soluzioni “fai da te” e al ricorso a caregiver privati, e che può invece trovare risposte convenienti attraverso l’associazionismo familiare, la cooperazione sociale, le organizzazioni mutualistiche.
Piú in generale pensiamo alla necessità di rivisitare la questione dei meccanismi di composizione del risparmio privato e delle forme di assicurazione. Negli ultimi decenni, un ruolo crescente è stato attribuito al mercato, in base al principio di responsabilità e allo scambio tra domanda e offerta, caricando sul singolo individuo il compito di provvedere alla propria protezione sociale, e rafforzando la dicotomia tra pubblico e privato (mercato). Si apre invece la possibilità di andare al di là di questa dicotomia, verso la costruzione di un modello a tre pilastri, dove coesistono sistema pubblico, privato e civile.
La strada innovativa da percorrere va cosí verso forme nuove di alleanza e mutualità, a livello locale, capaci di sfruttare le pressioni esistenti verso una riorganizzazione del sistema di protezione nella direzione di un rilancio della capacità di ritessitura dei legami sociali diffusi. In questa chiave, in particolare le parti sociali e le associazioni intermedie, ma anche altri soggetti privati, comprese le imprese, possono concorrere a produrre un Welfare che è privato in quanto non statuale e capace di dialogare col mercato, ma è civile in quanto mosso da un’ottica socializzante, solidale e mutualistica (5). Ciò comporta peraltro un ripensamento del terzo settore, per come si è andato formando negli ultimi due decenni in Italia: prestatore di servizi a basso costo per conto dello Stato; ed emerge per esso la possibilità di riappropriarsi di un ruolo effettivamente alternativo e indipendente rispetto al pubblico, rinvigorendo la tensione innovativa originaria, mortificata dai vincoli di dipendenza dalle risorse pubbliche (6).
Nel sostenere l’aggregazione della domanda, dunque, si promuove la socializzazione dei rischi e delle risposte ai bisogni. E le relazioni sociali dimostrano di essere una riserva di valore che si misura in termini di socialità, solidarietà, coesione e senso, prima ancora che in termini di risparmio e vantaggio economico, che pure ne è una delle dimensioni. Il punto, però, è anche un altro.
Ancor piú rilevante di quante e quali le risorse economiche aggiuntive possano essere, è il come queste vengono utilizzate. Le forme di finanziamento privato riescono a coprire solo parzialmente le aree di bisogno alle quali si rivolgono e intercettano gruppi sociali e aree territoriali già in buona misura tutelati, là dove vi è un “primo” Welfare funzionante.
Emblematici da questo punto di vista il Welfare contrattuale e aziendale. Le possibilità di espandere tramite essi le tutele dei lavoratori sono evidenti, ma altrettanto evidente è la matrice corporativa e occupazionale che vi è alla base e che introduce nuove disuguaglianze tra lavoratori inseriti in aziende e mercati locali diversi, oltre che tra insider e outsider il mercato del lavoro (7).
Come queste ed altre esperienze insegnano, valorizzare le appartenenze comuni per attuare risposte condivise rinsalda i legami di reciprocità e solidarietà tra i membri, ma può disegnare nuove linee di esclusione. La natura particolaristica delle forme organizzate di finanziamento privato del Welfare è connaturata al loro essere espressione di interessi specifici, frutto del protagonismo di alcuni attori (imprese, sindacati, fondazioni, comunità locali, associazioni, ecc.).
Ma partire dai territori, dalle comunità di appartenenza, dai legami sociali può essere la via per generare un “valore condiviso” che ricade sulla comunità piú ampia in termini di coesione, solidarietà, bene comune, non ultimo di vantaggio economico. In altri termini, ridare trama alla società partendo dalla costruzione del legame sociale è la via per promuovere l’inclusione di tutti.

Ridefinire lo spazio pubblico per un “welfare generativo”

Le risposte di Welfare che fanno leva sulla socialità del territorio non possono essere sostitutive dell’azione statuale, ma sono una componente importante del sistema plurale. Alimentando un nuovo rapporto tra diritti e doveri o, meglio, tra crediti e debiti del cittadino nei confronti della comunità, contribuiscono a ricostituire il senso di una appartenenza, di un legame che, per contro, la pura mediazione astratta, svolta dalle tasse e dalla spesa pubblica centralizzata, ha finito con l’erodere. Se tali risposte non sono lasciate solo alla buona volontà, ma vengono organizzate e istituzionalizzate, cresce l’opportunità di trovare luoghi e attori capaci di moderare e orientare la domanda, organizzare dei servizi e rafforzare reciprocità e coesione.
Certo, per evitare che si accrescano le disuguaglianze è necessario che lo Stato non arretri nel suo ruolo di garante dei diritti di cittadinanza sociale, continuando a investire nelle politiche sociali per assicurare i livelli essenziali di assistenza sociale, facendosi altresí promotore (e partner) di interventi privati innovativi, di qualità e di comprovata efficacia.
Tuttavia, se il ruolo dello Stato e la logica dell’universalismo non vengono meno, non ci si può semplicemente ripiegare sulla loro difesa, piuttosto occorre modificare radicalmente l’assetto attuale dei rapporti tra Stato, mercato e civile, pensandosi all’interno di una fase istituente, non solo di riforma e/o di aggiustamento. Ne discende l’impegno per creare istituzioni nuove, capaci di ristabilire attenzioni antiche quali la mutualità e la solidarietà e in grado di passare da una logica della prestazione e della moneta (tipica del Welfare novecentesco) a una logica del legame sociale. Al riguardo possiamo fare due considerazioni.
Anzitutto, dalla dicotomia Stato-mercato non si esce attraverso l’individualizzazione, ma la costruzione di legami: il che comporta anzitutto la ri-socializzazione dei rischi, la condivisione delle risposte, il riconoscimento reciproco dei bisogni e della medesima condizione umana di finitezza e precarietà (8). Una via si apre proprio tramite i processi di riaggregazione della domanda (e dell’offerta, aspetto che non abbiamo qui lo spazio di considerare), capaci di condurre alla sostenibilità economica e sociale (relazionale) delle risposte. L’obiettivo è la creazione di una sfera d’azione collettiva in cui è la socialità, la responsabilità condivisa, la solidarietà a essere lo specifico. Per dirla in sintesi, lo snodo di questa visione non sta nel trade-off “meno Stato piú privato”, ma nella trasformazione intima delle diverse sfere, che sposta il ragionamento dal piano quantitativo a quello qualitativo e pone in questione la qualità, il “tipo” di Stato, di Welfare pubblico, di Welfare privato e di Welfare civile e delle relazioni tra di essi. Ciò obbliga però a fare quello che il Welfare societario aveva già indicato come indispensabile, ovvero la “ridefinizione dello spazio pubblico” (9), della sua regolazione e governance. La pluralizzazione “radicale” del sistema spinge a declinare in modo inedito il principio di sussidiarietà, a confrontarsi seriamente con la prospettiva della poliarchia, a riscrivere i rapporti tra i soggetti in campo, i luoghi e le arene deliberative e partecipative, riconoscere che la produzione delle condizioni di benessere dei cittadini non è una prerogativa esclusiva dello Stato, bensí una funzione sociale diffusa. Il tema è amplissimo per portata e criticità, e rappresenta il banco di prova piú rilevante per innovare il Welfare nella direzione indicata.
In secondo luogo, è a partire dal basso, dalle esperienze locali che l’innovazione può realisticamente prendere forma, laddove il volontariato organizzato espressione della comunità locale, le aziende profit con una visione territoriale, le municipalità vicine ai cittadini, le cooperative con una logica da impresa sociale, i sindacati, le associazioni e le nuove forme mutualistiche sono i soggetti che si candidano a inverare – sull’unica base possibile che è quella territoriale – l’universalismo, da coniugare con forme di risocializzazione in grado di dare maggiore forza alle comunità. Non si tratta di ricadere in una logica particolaristica anti-universalistica, al contrario, si tratta di riscoprire nel particolare una forza universalizzante, una tensione verso l’universale concreto che emerge nell’eccedenza di significato e di valore che l’esperienza particolare produce.
Per innescare un simile percorso di innovazione, occorre ridisegnare il baricentro del sistema di protezione e collocarlo nelle comunità locali; creando luoghi, forme, strategie, azioni in cui alcune mediazioni vengano fatte da soggetti aggreganti capaci di rilanciare una dimensione pubblica territoriale. La via prospettata costringe cosí a cambiare l’ordine del discorso. Interpretato in ottica “generativa” (10), lungi dall’essere un fardello di cui liberarsi, il Welfare si trasforma in una delle leve strategiche per l’innovazione sociale, un àmbito decisivo per la produzione di nuovo valore, luogo di uno scambio positivo tra l’individuo e il suo contesto sociale.

Rosangela Lodigiani
Ricercatrice in Sociologia generale, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Mauro Magatti
Professore ordinario in Sociologia generale, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano


 

Note

 

1) M. Magatti, La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, Feltrinelli, Milano 2012.

2) M. Ferrera, F. Maino, Il secondo Welfare in Italia: sfide e prospettive, in “Italianieuropei”, 3(2011); F. Maino, Il secondo Welfare: contorni teorici ed esperienze esemplificative, in “La Rivista delle politiche sociali”, 4(2012), pp.167.182.

3) R. Lodigiani, “Il dibattito”, in C. Gori (a cura di), L’alternativa al pubblico? Le forme organizzate di finanziamento privato nel welfare sociale, FrancoAngeli, Milano 2012.

4) C. Gori, Pubblico e privato nel welfare sociale, in C. Gori (ed), L’alternativa al pubblico? Le forme organizzate di finanziamento privato nel Welfare sociale, FrancoAngeli, Milano 2012.

5) M. Magatti, La grande contrazione, op. cit.

6) S. Zamagni, Economia civile e nuovo welfare, in “Italianieuropei”, 3(2011), pp. 26-33.

7) R. Lodigiani, “Il dibattito”, op. cit.

8) S. Manghi, Ripartire dal legame fraterno. Nuovo welfare, bene comune e pratiche sociali, in “Animazione sociale”, 267(2012), pp. 15-27.

9) P. Donati, Distinguere fra bene comune, beni pubblici e beni relazionali: per rifondare le relazioni fra Stato e società civile, in P. Donati e R. Solci (a cura di), I beni relazionali. Che cosa sono e quali effetti producono, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

10) M. Magatti, La grande contrazione, op. cit.

 

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